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 2018  agosto 04 Sabato calendario

Dimmi come batti il tempo e ti dirò chi sei

Chissà perché in tempi di conflitto interculturale e di multiculturalismo non si ristampa il libro di Edward T. Hall “Il linguaggio silenzioso”. Pubblicato alla fine degli anni Cinquanta, è stato tradotto in italiano per la prima volta nel 1968 da Gianni Celati per Bompiani e, dopo qualche ristampa nell’economica Garzanti, è scomparso. Eppure, per quanto siano passati cinquant’anni, l’opera dell’antropologo americano ha ancora molte cose da dire per aiutarci a capire l’altro, e anche noi stessi, cosa ben più difficile.
Hall era nato nel 1914 ed è morto nove anni fa; dopo gli studi universitari, si era trasferito negli anni Trenta del XX secolo presso le popolazioni indiane Navajo e Hopi. Durante il secondo conflitto mondiale l’esercito lo aveva mandato a occuparsi di giapponesi e a conoscere culture diverse dalla propria, come la filippina. Meno di dieci anni dopo pubblica La dimensione nascosta, con cui ha dato un contributo fondamentale alla prossemica, all’influenza che le distanze esercitano nelle varie culture umane.
Hall è un pragmatico, intelligente e sottile. Ne Il linguaggio silenzioso ha il pregio di essere semplice, e al tempo stesso denso. Si occupa di quello che la gente fa, che, come ricorda nella seconda pagina del libro, «è più importante di quel che dice». Per fare questo ha creato un sistema interpretativo. Parte dall’analisi delle differenti concezioni del tempo e dello spazio, che hanno le varie culture. Noi occidentali, ad esempio, tendiamo a considerare il tempo come qualcosa di stabile in natura, qualcosa che è intorno a noi e cui non si può sfuggire. Non è così. Attraverso una serie di esempi, alcuni dei quali tratti dall’esperienza con i nativi americani, Hall mostra come il tempo sia elastico, dilatabile e restringibile, e come abbia consistenze diverse presso popolazioni differenti. Ad esempio, per i Navajo, il tempo è come lo spazio: «Solo qui ed ora è davvero reale». Il futuro non esiste.
Hall scrive cose che non siamo abituati a considerare, presi come siamo dalla apparente complicazione delle nostre vite. Per questo fatichiamo a comprendere come la cultura controlli in modo profondo e persistente i comportamenti, sovente di là della nostra stessa consapevolezza e della sfera d’influenza dei singoli individui. Ci sono tre aspetti che agiscono nelle diverse culture che per Hall sono fondamentali: il formale, l’informale e il tecnico. Quasi nessuno è consapevole i quanto siano informali molti dei nostri comportamenti. Basta però passare in un’altra cultura — ad esempio quella giapponese — e subito ci si accorge di come sia difficile distinguere tra aspetti formali e informali presenti. Quelli tecnici, poi, nella nostra società sono legati all’autorità e alla legge. Per farsi capire Hall racconta una storia. In una cittadina americana del West a popolazione in prevalenza spagnola c’è un limite di velocità di quindici miglia (24 km) esteso a due strade nazionali. Un poliziotto di origine spagnola, Sacho, fa multe a tutti quelli che lo superano anche di poco.
Arresta chi passa a 16 miglia all’ora; la multa è piuttosto rilevante. Gli americani della zona, fermati per così poco, davanti al giudice finiscono spesso condannati; al contrario, i residenti spagnoli ottengono la comprensione di giudici e giurati. Gli americani mostrano un aspetto di tolleranza informale — sono solo 2 miglia in più, pensano — e diventano invece molto formali e rigidi davanti alle giurie; duri e tecnici, scrive Hall, perché questo è il loro modo di vedere le cose della Legge, e pertanto finiscono condannati. Gli spagnoli s’appellano invece in modo informale alla comprensione di persone simili a loro, ricorrendo anche ai legami famigliari con chi li giudica: sono assolti.
Il libro è pieno di storie ed esempi che aiutano a capire come funzionano le culture. Spesso, poi, il compito più difficile non è capire la cultura straniera, bensì, ripete Hall, la propria; a questo serve Il linguaggio silenzioso. Ma cos’è la cultura? Hall risponde: comunicazione. Per spiegarlo aggiunge che la cultura non è esperienza. L’esperienza «è qualcosa che l’uomo proietta sul mondo esterno quando se ne impadronisce nella sua forma culturalmente determinata». La cultura è quella serie di schemi, per lo più inconsapevoli, che orientano i nostri sensi e i pensieri. A chi obietta che ci sono esperienze comuni a tutti, come la vita e la morte, Hall risponde che queste presunte esperienze obiettive che dovrebbero essere le stesse in ogni cultura, ma in realtà non lo sono.
Poiché viviamo in un mondo multiculturale il libro di Hall è di grande ausilio per capire come pensano gli altri popoli. Nell’Europa delle diverse lingue e culture, resta fondamentale per decifrare quelli che l’antropologo chiama i «sistemi di Messaggio Primari», a partire dall’idea stessa di spazio o quella di tempo, per arrivare agli aspetti formali informali presenti nelle diverse società. Verso la fine del suo studio, che si legge come un romanzo, Hall cita una frase del critico letterario Lionel Trilling, altro americano oggi purtroppo dimenticato: «La cultura è una prigione». Com’è vero! Ci si accorge di questo solo quando si entra in un’altra cultura, diversa dalla nostra. Subito si prova un senso di vera liberazione, per poi rendersi conto che le culture legano gli esseri umani tra loro e nel contempo mettono in atto delle limitazioni terribili. Non è forse un caso che questa lezione sia presente nell’opera narrativa del bravo traduttore di questo volume, Gianni Celati. Come scrive Celati nel suo libro più noto, Narratori delle pianure, la vita è «una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d’inconsistente». Hall ci parla di questi cerimoniali, e li spiega molto bene.