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 2018  agosto 04 Sabato calendario

Lunga intervista a Lula dal carcere

CURITIBA ( BRASILE) Presidente Lula, si candida alle prossime elezioni del 7 ottobre? Il padre della sinistra brasiliana si concede un lungo silenzio. Sembra riflettere sulla risposta. Ogni parola va soppesata in questa intervista che concede aLa Repubblica. Una delle prime alle testate di tutto il mondo da quando, il 7 aprile scorso, è stato rinchiuso nel carcere della sede centrale della Polizia Federale, qui a Curitiba, capitale del Paranà, Stato nel Sud del Brasile, per scontare la condanna a 12 anni e 1 mese per corruzione passiva e riciclaggio. «Certo, mi candido», risponde Lula. «E mi candido per vincere. Per tornare alla guida di un grande Paese che sta vivendo una crisi drammatica».
Lo farà anche se è rinchiuso in un carcere. E se dovesse vincere come farà a governare?
«Nelle elezioni del 2016 ben 145 candidati a sindaco sono stati autorizzati dal Tribunale superiore elettorale a competere nelle stesse condizioni in cui io mi trovo oggi. Erano indagati, qualcuno condannato, molti in cella. Perché dovrebbe essere diverso per me. Alla lunga serie di ricorsi mancano ancora due pronunciamenti: quello del Tribunale superiore federale e appunto del Tribunale superiore elettorale».
Che cosa si aspetta?
«Capisco che, per evitare la mia rielezione, si farà di tutto. Verrà esercitata tutta la violenza giudiziaria possibile. Ma a quel punto non sarà più la violenza contro Lula cittadino, sarà la violenza contro il popolo e la democrazia. Chi si opporrà dovrà farlo nel vivo della campagna elettorale, con l’attenzione del Paese e del mondo tutta concentrata sulle elezioni presidenziali. In gioco, questa volta, c’è il futuro della democrazia in Brasile».
Come andrà a finire, quindi, secondo lei?
«Visto che mi considero e sono innocente, arriveremo alle conseguenze finali. Non mi tiro indietro. Se vogliono batterci lo dovranno fare nelle urne. Democraticamente».
L’intervista con Luiz Inácio Lula da Silva si articola in diciannove domande. Domande che gli abbiamo fatto recapitare in carcere con la collaborazione dell’onorevole Roberto Gualtieri, deputato Pd al Parlamento Europeo e presidente della Commissione problemi economici e monetari, che lo ha incontrato in cella con la presidente del Partido dos Trabalhadores, Gleisi Hoffmann.
Queste sono le risposte scritte di suo pugno dall’ex presidente brasiliano. Come si sente e cosa pensa in queste lunghe giornate da detenuto?
«Sono sereno, deciso determinato. Ma anche furioso. Attendo ancora una risposta dal pubblico ministero e della polizia federale: devono dimostrare che ho commesso un crimine».
Lo hanno stabilito due sentenze…
«Ci sono centinaia di giuristi e legali che considerano queste sentenze assurde. Professionisti e studiosi di fama internazionale, non militanti di partito. Il verdetto, soprattutto quello di secondo grado, è stato criticato con un manifesto firmato da oltre 300 avvocati. La polizia ha invaso la mia casa, mi ha costretto a testimoniare, ha fatto trapelare sulla stampa e tv le mie telefonate agli avvocati e perfino quelle che ho fatto al presidente Dilma».
Accade spesso per tanti processi.
«No, aspetti. Qui siamo andati oltre. Si indagava sul due volte presidente del Brasile. I pubblici ministeri hanno organizzato un vero e inedito show televisivo per accusarmi di essere il più grande criminale del Paese. Un ladro, un corrotto. Il capo di una banda.
Soltanto che le indagini non hanno provato altro che la mia innocenza. Mi hanno accusato di partecipare alle deviazioni della Petrobras, sì le famose tangenti, ed è stato dimostrato, nel processo, che non ho avuto alcun ruolo. Il giudice Sergio Moro lo ha dovuto riconoscere. Lo ha fatto di suo pugno, rispondendo ad un ricorso dei miei avvocati».
La sua difesa è comprensibile e legittima. Ma ci sono stati almeno tre verdetti, oltre a quello sull’habeus corpus del Tribunale Superiore.
«Il mio caso è infarcito di menzogne. Hanno mentito così tanto da diventare prigionieri delle loro bugie. Il giudice mi ha condannato per avere commesso “atti indeterminati”. Una simile motivazione non esiste in alcuna nazione civilizzata».
Il Brasile si è imbarbarito sul piano giuridico?
«Il Brasile sta vivendo un periodo buio, di grande regressione sociale e istituzionale. E lo vive dopo avere compiuto uno straordinario salto storico. Abbiamo avuto più di un decennio di prosperità economica e di inclusione sociale, con una piena democrazia. Abbiamo liberato 40 milioni di brasiliani dalla miseria, abbiamo superato la fame, abbiamo creato 20 milioni di nuovi posti di lavoro, abbiamo portato dentro le università i più poveri, i neri, gli indigeni. Adesso vediamo tutti come sono tornate la fame e la miseria; 13 milioni di persone hanno perso il lavoro, altri tre hanno rinunciato persino a cercare un impiego perché non c’è più offerta. La sofferenza della popolazione è enorme e questo mi preoccupa molto. Mi conforta sentire l’affetto e il desiderio di resistenza di tante persone. Ricevo migliaia di lettere e manifestazioni di solidarietà da semplici cittadini, uomini e donne, anziani e giovani. Ecco, tutto questo mi dà forza e coraggio. Rinnova la mia fede».
Fede anche nella giustizia?
«Ho aderito all’ordine di arresto e mi sono consegnato in carcere. Il mandato di cattura era illegale perché sono innocente e sono certo che questo sarà riconosciuto. Non potevo diventare un fuggiasco, abbandonare il mio Paese in un momento così grave. Adesso sono qui, bloccato. Ma sono loro, i giudici, a dovere rispondere ogni giorno: dove sono le prove della mia colpevolezza? Perché è stato condannato un innocente. La Corte Suprema, a cui lei si riferisce, non ha esaminato le prove a sostegno della condanna. Ha negato il mio diritto ad impugnare la sentenza da libero fino al verdetto definitivo. È un sacrosanto diritto garantito dall’articolo 5 della nostra Costituzione».
Perché lo avrebbero fatto?
«Lo chiedo a lei. Forse perché mi chiamo Luiz Inácio Lula da Silva e sono candidato alla presidenza del Brasile? Come democratico e brasiliano devo continuare a credere nelle Istituzioni».
La sua condanna è dunque politica. Visti i sondaggi che la danno vincente tra il 30 e il 35 per cento, metterla in prigione significava escludere un suo trionfo.
«Se il giudice stesso sostiene di non avere prove sul mio coinvolgimento nel giro delle tangenti, se non è riuscito a dimostrare che ero in possesso o di essere stato proprietario del famoso appartamento di Guarujá, posso pensare che sono stato condannato per essere escluso dalla vita politica. Leader di vari Paesi affermano che il mio arresto ferisce la democrazia.
Da quando sono stato condannato il mio nome è cresciuto nei sondaggi. Lo sa perché? Perché la gente si rende conto che colui che era sotto processo non era Lula ma il modo in cui il Pt (il partito dei lavoratori, ndr.) aveva governato il Brasile. Lo scopo era escludere il nostro progetto: mettere al primo posto i più bisognosi, gli ultimi, i diseredati, i dimenticati, i fantasmi sociali. Hanno voluto cancellare un sogno diventato realtà: quello che ha consentito a tutti di partecipare alla crescita, che ha cercato di ridurre la nostra profonda diseguaglianza sociale».
Il Brasile sembra orfano dei suoi leader. Oltre a lei vede qualcuno che possa aspirare a Planalto?
«Il Pt ha cinque governatori negli Stati e diversi leader nazionali. In altri partiti vedo giovani con un grande futuro, come Guilherme Boulos e Manuela Dávila. Per non parlare di altre figure di spicco nei movimenti sociali e di una fantastica generazione di artisti e attivisti culturali che lavorano nei social e nelle periferie. Chi è vecchio, logoro, vuoto, sono i conservatori. Non hanno offerto nuove idee al paese. E senza nuove idee non ci sono nuovi leader».
La destra di Jair Bolsonaro rappresenta un pericolo concreto per il Brasile? Nei sondaggi è subito dietro Lula…
«Se la destra significa negazione dei diritti sociali, delle pari opportunità, se esprime l’ondata sovranista, populista e razzista che invade gran parte dell’Europa e purtroppo si sta affacciando anche nella sua Italia, allora penso che da noi si è già espressa. La curva è avvenuta in Brasile nel 2016 con un colpo di Stato. Per rovesciare il governo legittimo di Dilma Rousseff hanno liberato i demoni dell’odio e dell’intolleranza. Questo ha prodotto risposte autoritarie, anche di natura fascista. Hanno ripreso fiato e visibilità gruppi che invocavano un intervento militare. Le uscite autoritarie, civili o militari, non recupereranno il Brasile. Abbiamo bisogno di più democrazia, non meno».
Violenza e corruzione sono i temi dominanti nei discorsi dei brasiliani. Basterebbe davvero il suo programma di sempre per tentare di risolverli?
«I brasiliani soffrono anche di carenze nella sanità e nell’istruzione. Patiscono la disoccupazione e il costo della vita. Se ne parla poco nei nostri giornali. La nostra prima misura di governo sarebbe il varo di un piano di emergenza per generare posti di lavoro. Per questo dobbiamo tornare agli investimenti pubblici e stimolare quelli privati. Senza crescita, occupazione e nuove iniziative economiche non c’è modo di combattere la violenza. Continueremo a combattere la corruzione. Come un obbligo, non per fare spettacolo».
Avreste potuto farlo prima. Quando eravate al governo.
«Lo abbiamo fatto. Non a sufficienza. Con il progetto del Pt il Brasile ha goduto della più grande crescita della sua storia».
Qualcosa non ha funzionato.
«Forse non tutto. Ma con i nostri governi siamo diventati il Paese più forte tra quelli emergenti, in due anni abbiamo sconfitto la fame come ci ha riconosciuto l’Onu. Guardi adesso: in 12 mesi la gente è tornata a vivere di elemosina per la strada, i salari sono diminuiti, le università e gli ospedali sono stati distrutti, le famiglie sono costrette a cucinare con la legna, persino con l’alcol, perché non possono permettersi nemmeno una bombola di gas. Il governo non pensa alla massa enorme di poveri: la maggioranza. È al servizio del grande capitale, degli interessi stranieri. In Brasile soltanto un terzo della popolazione è coinvolto nella distribuzione della ricchezza. Noi, se vinceremo, penseremo ai più bisognosi. Governeremo per 208 milioni di brasiliani, non per una sola parte».
Qual è il sogno di Lula?
«Quello di ogni brasiliano. Svegliarsi convinti che domani sarà meglio di oggi. Un lavoro per tutti, la sicurezza per tutti. Un Paese dove non si soffre la fame, dove esistono scuole di qualità per ogni bambino, la salute per chi non ha soldi, opportunità per i giovani, rispetto per gli altri e per sé stessi. Indipendentemente dalla razza, dal genere, dalle credenze e tendenze sessuali. Lo sogno spesso. Vorrei che si realizzasse. Vorrei invecchiare vedendo un Brasile con un governo trasparente, dove c’è giustizia, dove non esiste discriminazione tra ricchi e poveri. Il Paese per cui ho lottato una vita: diritti per tutti, senza privilegi per pochi».
Accadrà davvero nel suo Brasile?
«Accadrà. Mi candido per questo».