La Stampa, 3 agosto 2018
Dittatori scrittori, l’altro massacro: dell’ortografia e della letteratura
Con un gioco di parole fin troppo scontato, la loro è stata definita una «prosa mortale». I dittatori amano scrivere e oltre a uccidere oppositori si sono dedicati a un’altra forma di massacro, meno grave ma sempre devastante: quello di ortografia e letteratura. Da Stalin a Enver Hoxha, da Gheddafi a Castro, sono stati grafomani compulsivi e hanno inondato il mondo con una sterminata e mortalmente noiosa produzione libraria. Volumi di memorie e poesie, trattati pseudo ideologici, persino romanzi, nessuno dei quali memorabile, che ebbero l’indubbio vantaggio di non venire stroncati, pena una condanna a morte certa. Lenin da solo ha riempito 55 volumi. Mentre Mao, oltre al celebre Libretto rosso la cui produzione di massa mise a dura prova l’industria di stampa cinese e costò la vita a intere foreste di conifere sacrificate sull’altare della Rivoluzione per produrre cellulosa, ha scritto anche altri 43 titoli. A raccogliere e catalogare questa galleria dell’orrore letterario è stato Daniel Kalder, autore scozzese, ex funzionario governativo al lavoro nell’unità di crisi della mucca pazza, quando nel 1997 decise di dimettersi e andare un po’ a vedere cosa succedeva nella Russia di Eltsin, affascinato dai rapidi cambiamenti in atto in un Paese allora poco spiegato in Occidente. Ha prodotto quindi un paio di saggi sulla Russia post sovietica e poi è stato folgorato dai dittatori scrittori (Dictator Literature. A History of Deposts Through Their Writing (Oneworld, pp. 379, £ 16,99).
In principio era Lenin
Nel libro racconta che viveva a Mosca nei primi anni 2000 e, facendo zapping, sulla televisione russa apparve un enorme monumento raffigurante un libro verde e rosa. Era un reportage sul Rukhnama, o Il libro dell’anima, presentato come il capolavoro di Saparmurat Niyazov, allora presidente tiranno del Turkmenistan, segretario del partito comunista. I turkmeni era obbligati a leggerlo come prova per la patente di guida. Kalder si prese l’impegno di fare altrettanto e ci ha messo tre anni, perché era davvero mortale.
Da lì è iniziato il suo folle lavoro di lettura e raccolta compulsiva di scritti di tiranni. La partenza era obbligata: i russi. Lenin e la sua fascinazione per il Che fare? scritto da Nikolaj Černyševskij nel 1863, titolo che poi usò per il suo libro sulla strategia rivoluzionaria. Quindi Stalin e la sua prosa verbosa e ridondante, creatore involontario di una sorta di «canone dittatoriale» dove l’autore e la sua opera diventano un tutt’uno da idolatrare, come una parte per il tutto. Quindi il Mein Kampf di Hitler, che a 35 anni non padroneggiava né l’ortografia né la grammatica a un livello elementare: i suoi testi sono pieni di errori lessicali e di sintassi, per non parlare della punteggiatura e delle maiuscole. E poi Enver Hohxa, l’ayatollah Khomeini, Kemal Atatürk, Francisco Franco, Gheddafi, Saddam Hussein, Fidel Castro, per finire con la dinastia dei Kim di Corea.Discorso a sé per Mussolini e il suo L’amante del cardinale, l’unico vero romanzo della lista, ispirato a una storia vera, dove sono mescolati tutti gli ingredienti del feuilleton, passione, perversione, delitto, macabro e torbide pulsioni sessuali. Kalder è più clemente con il Duce, a cui riconosce che, essendo stato un giornalista di successo, almeno sapeva tenere la penna in mano. E poi gli inglesi tendono ancora a guardare al fascismo come una dittatura da operetta e a Mussolini come un grande prepotente, più che un dittatore vero e proprio, almeno fino alle leggi razziali e all’entrata in guerra al fianco di Hitler.
La «Dic Lit»
Rimane aperta la questione del perché i dittatori abbiano voluto lasciare il segno nella storia anche con l’inchiostro sulla carta. C’è chiaramente la fascinazione per l’onnipotenza dello scrittore, vero despota delle sue pagine, sul quale esercita un potere assoluto. Ma i buoni scrittori, come sottolinea Kalder, hanno la capacità di accettare la natura complessa e le contraddizioni del mondo. Mentre i despoti, come i cattivi scrittori, fanno l’esatto opposto, e vogliono riportare tutto a una piatta uniformità. Comunque un bel parco degli orrori, opere che potevano tranquillamente finire nella pattumiera della storia, insieme ai loro autori, ma che invece Kalder ha raccolto come monito per il futuro. Perché proprio ora? Perché il mondo, dice l’autore, sta attraversando un periodo particolare dove la figura del dittatore torna di attualità e c’è sempre il rischio che, annoiati da Twitter e dai social media, anche i tiranni contemporanei tirino fuori il capolavoro dal cassetto. Ultima curiosità: a proposito di «Dictator Literature» i giornali inglesi non hanno resistito a parlare di «Dic Lit», che ha la stessa onomatopea di Dick Lit, dove «Dick» è l’organo sessuale maschile. Per uccidere un dittatore anche lo humor britannico si rivela un’arma vincente.