La Stampa, 3 agosto 2018
80 anni di Blue Note. Don Was, un rocker alla guida della casa del jazz: «La libertà? Ce la pagano gli sponsor»
Al nono piano del celebre edificio della Capitol Records di Hollywood, che ha la forma di dischi di vinile impilati uno sull’altro, Don Was, bassista, produttore e dal 2012 anche presidente della leggendaria etichetta jazz Blue Note Records, gira in ufficio a piedi nudi e con il cappello da cowboy. Intorno a lui c’è di tutto, anche un contrabbasso, una console vintage e montagne di vinili.
Sopra la scrivania ha incorniciati i poster degli album preferiti, i classici jazz Speak No Evil di Wayne Shorter e Mode for Joe di Joe Henderson. «Ero un ragazzino che impazziva per i Beatles e Bob Dylan quando a 14 anni mi innamorai del jazz. La radio passò Mode For Joe e rimasi di stucco: com’era possibile che un sassofono riuscisse a emettere grida umane di angoscia?». È la sua epifania, cge racconta lo fa anche nel nuovo documentario dedicato alla Blue Note: Beyond The Notes, diretto dalla svizzera Sophie Huber in vista dell’80° anniversario dell’etichetta, che cade nel 2019. «Credo sia una storia da raccontare. Ma in modo originale e non con le analisi dei soliti musicologi», commenta Was, che ha scelto la regista perché autrice dell’insolito documentario sull’attore Harry Dean Stanton Partly Fiction.
A fondare la Blue Note nel 1939 furono Alfred Lion e Francis Wolff, ebrei tedeschi in fuga dalla Germania nazista che non sapevamo nulla sull’industria musicale: grandi fan del jazz, erano intenzionati a pubblicare i dischi che avrebbero voluto ascoltare, e per realizzarli avrebbero sostenuto gli artisti in ogni modo, lasciando loro una libertà creativa senza precedenti. «Avevano capito che la musica nera americana era un grido di libertà», dice Was, vero nome Don Edward Fagenson, originario di Detroit, che ha una carriera parallela come produttore dei Rolling Stones («Siamo nel mezzo del nuovo album, abbiamo 40 pezzi originali su cui lavorare»), di Bob Dylan e del suo «grande amico» Zucchero Fornaciari.
«Oggi bisogna essere furbi» Con l’innovativa veste grafica delle copertine, su foto scattate dallo stesso Wolff, i dischi della Blue Note hanno scritto la storia. Oggi l’etichetta è parte della Capitol Records. «A volte invidio Wolff e Lion e la loro possibilità di firmare assegni basandosi sull’istinto, senza dovere rendere conto a nessuno – dice lui – ma non posso negare che ci sono vantaggi a essere parte di una major». Poi racconta, «senza fare nomi», di come mesi fa ha negoziato l’apparizione in una trasmissione televisiva di un artista jazz emergente con la promessa di rendere disponibile anche un nome più celebre della Capitol. Ma con la vendita dei dischi in continua diminuzione, è ancora possibile prendere rischi? «Sì ma bisogna essere furbi».
Si guarda intorno e indica due casse wireless colorate in blu, un’edizione limitata per il 75° anniversario dell’etichetta. «Li vede? Ci hanno pagato un anno intero di jazz durante cui non abbiamo dovuto fare alcuna pressione sugli artisti. Abbiamo anche le scarpe Blue Note, le crociere-concerto ai Caraibi, i dischi in vinile in edizioni speciali, ecc». E conclude, ridendo: «Oggi utilizziamo altri mezzi per sostenere la libertà d’espressione».
«La sfida – dice ancora – è mantenere la musica innovativa: questa è un’etichetta che ha sempre spinto in avanti i confini, ha ospitato artisti rivoluzionari». Se l’hip hop ha dato nuova vita al vecchio catalogo Blue Note, soprattutto agli inizi del 2000 quando rapper e dj utilizzavano celebri fraseggi jazz nei loro beat, Don Was insiste che l’idea che il jazz sia «difficile» è solo un pregiudizio: «Abbiamo svolto una ricerca di mercato: a chi sosteneva di non apprezzare il genere è bastato ascoltare The Sidewinder di Lee Morgan per cambiare idea». «Le tecnica – prosegue – non conta nulla. I grandi musicisti sono grandi conversatori, utilizzano lo strumento per dialogare». Contando su nuove leve geniali, come Robert Glasper («Uno che nella stessa conversazione riesce a citare Thelonious Monk, l’hip hop e una pubblicità di McDonald’s»), Was va controcorrente col suo ottimismo: «La musica è un bisogno interiore dell’individuo, ci aiuta a capire la vita, a darle un senso. L’arte arriva dove le parole non possono».