Corriere della Sera, 3 agosto 2018
Marcello Morandini si racconta: «Mi emoziono per una puntina»
VARESE «Sarà uno spazio nuovo per la città; sarà, soprattutto, un’occasione per tutti. Sono fiducioso e, alla fine, contento». Marcello Morandini in autunno vedrà completata la ristrutturazione della villa in via Staurenghi, nel centro di Varese, che ospiterà il suo museo. Finalmente una delle figure più poliedriche della nostra arte – architetto, scultore e designer – potrà dare una casa adeguata a una produzione straordinaria, spesso però apprezzata più all’estero che in Italia.
La sua stessa Varese, incontrata all’età di sette anni dopo essere nato a Mantova, ha consumato un obbrobrio nei suoi confronti: una bellissima piazza progettata da lui è tuttora in stato di abbandono perché di mezzo c’è una proprietà che è privata e non pubblica. Davvero il pubblico non può forzare il privato per evitare uno scempio? Morandini allarga le braccia, sorride. Avrebbe da dire qualcosa di pepato (e il carattere per farlo non gli mancherebbe) ma preferisce la diplomazia, tornando su sé stesso, sul racconto di un percorso artistico che approda a un museo la cui gestazione non è stata affatto semplice: «La svolta sta nel fatto che alcune fondazioni hanno dato una mano alla mia. Per la fase iniziale è sufficiente, ma non basta per quanto dovrà seguire: dialogare con chi amministra la res publica sarà decisivo». Non a caso lo Spazio Morandini, la cui apertura avverrà l’11 marzo 2019 («Tra il termine del restauro e l’inizio delle attività ci sarà ancora parecchio lavoro»), si colloca a ridosso del Teatro Santuccio – regolato dall’amministrazione civica – e a duecento metri in linea d’aria da Palazzo Estense, oggi sede comunale ma già dimora di Maria Teresa d’Austria, alla quale Varese deve il catasto e le prime, importanti opere di urbanizzazione. «Il luogo lancia un messaggio: con molta discrezione, ma con altrettanta convinzione, conto di avviare un motore culturale nel cuore della città».
Morandini, a lei, signore del bianco e del nero, domandiamo: il mondo è bianco o è nero?
«È a colori. Per fortuna: siamo parte della Natura e grazie a Dio abbiamo questo beneficio. Però, in certi casi, alcuni colori sono più valorizzati e utilizzati, magari per chiarire meglio il proprio profilo professionale».
Quindi anche l’arte è a colori?
«Certo, l’arte è soprattutto a colori».
Il bianco e il nero – lei sostiene – nella loro essenzialità consentono di concentrarsi sulla forma più che sull’estetica.
«Sì, bianco e nero sono realtà molto precise. Si scrive, ad esempio, nero su bianco e guardate quante informazioni otteniamo. Non è necessario scrivere a colori, si perderebbero la concentrazione e il senso di ciò che si vuole dire».
La sua geometria appare «dinamica».
«Le forme suggeriscono messaggi infiniti. Io provo a scoprire il movimento della geometria e tutto quello che è nascosto al suo interno».
È vero che il design è architettura?
«Il design è l’architettura delle cose che usiamo ogni giorno. Fondamentalmente ogni oggetto dovrebbe essere armonico. Penso alle sedie, ai tavoli, alle posate, alle auto. Design è estetica abbinata alla funzione, nel rispetto dei sensi. Un esempio: una forchetta deve poter essere usata bene e deve funzionare senza che si sappia che è anche un oggetto di design».
Come è cominciato il suo viaggio nell’arte?
«Per caso, come grafico-designer. Aiutavo Angelo Fronzoni, a Milano, alla sera: guadagnavo qualche soldo in più rispetto allo stipendio che avevo di giorno. Gli facevo tutti i definitivi, che poi mostrava ai clienti. Per lui la grafica era la base della comunicazione. Ho imparato che per comunicare con gli altri non bisogna essere complicati: basta trasmettere in modo corretto e rispettoso ciò che si intende dire. Per me è stata una grande lezione che ho poi sviluppato quando ho aperto il mio studio. Fin dall’inizio mi sono dedicato alla ricerca delle forme: nel disegno, poi con i modelli in cartoncino e infine con lavori in legno verniciato o in altri materiali».
È più designer, scultore o architetto?
«Mi considero fortunato perché riesco a fondere le tre realtà. Se ne tralasciassi una, farei un torto alle altre. Però negli ultimi anni sono più orientato verso l’arte e la ricerca della forma pura. La vita è la conoscenza delle cose, dunque della forma, ma l’uso che si fa della forma diventa design. Dal conoscere una cosa all’usarla, e infine all’abitarla, il passo è breve. Ecco che l’approdo è l’architettura: io non vedo divisioni tra questi tre mondi».
Perché la scelta di lavorare spesso in Germania?
«Si lavora in un mondo aperto, ogni città ha più musei, ciascuno con una precisa realtà culturale che accetta e promuove culture diverse. Io ho sempre trovato la strada aperta per il mio lavoro: a Ludwigshafen, in 20 anni, lo stesso museo mi ha dedicato tre mostre ufficiali: deduco che non si siano sbagliati, più facile che abbiano creduto nel mio lavoro e nella mia professionalità».
L’Italia si è curata poco di lei?
«Assolutamente sì».
Nemo propheta in patria…
«I motivi sono stati politici, a causa del Sessantotto. Fin lì avevo avuto grande successo; nel 1967, a tre anni dall’inizio della mia carriera, avevo partecipato alla Biennale di San Paolo del Brasile. Quindi nel 1968, appena ventottenne, fui invitato a Venezia. Ero uno dei 22 italiani ed ero il più giovane. Fu l’anno della contestazione, delle cariche della Polizia. Non fui più invitato perché non avevo criticato quella Biennale. Non sono stato dichiaratamente uno di sinistra che contestava: detesto ogni forma di protesta. A causa dell’ostracismo, ho accettato l’invito di un gallerista svizzero che mi ha introdotto in Germania».
È mancato da poco Gillo Dorfles, un suo mentore.
«Era uno dei commissari della Biennale. Era stato lui a invitarmi a San Paolo. E ancora prima ero stato invitato da lui e da Umbrio Apollonio, capo dell’archivio storico, a rappresentare l’Italia in Austria con altri artisti. Dorfles mi seguì fin dall’inizio con affetto: era un amico ed è stato un grande uomo, importante per l’Italia».
Lei è spesso all’estero. Come vedono l’Italia gli stranieri?
«A settori. Gli elementi dominanti sono due: l’Italia che non funziona da un lato, il grande rispetto per il nostro Paese dall’altro. Devo dire che predomina il secondo. C’è rispetto per l’Italia, per gli italiani che risolvono i problemi pur nelle difficoltà. E c’è ammirazione per le tante personalità che esprimiamo: ce le invidiano. Nell’arte siamo stati primi, grazie al nostro passato; ma lo siamo anche nell’arte moderna. Il guaio? Iniziamo tante cose importanti ma a volte non riusciamo a trasferirle in campo internazionale. Così altri ne approfittano e lo fanno al nostro posto».
Nell’era dei social, l’arte è a rischio?
«Non siamo pronti a viaggiare in parallelo con la tecnologia. Siamo più deboli, più lenti e ignoranti. Quindi è impossibile trarre vantaggi da strumenti così repentini, così furiosi, così propositivi. Non siamo all’altezza di sfruttarli in maniera positiva. Se non è ben diretta, la tecnologia va solo a vantaggio dei più furbi».
La Triennale di Milano ha dedicato una mostra all’età dell’oro del design italiano. Tornerà un’era tanto felice?
«Viviamo un momento creativo e provocatorio del design, ma è internazionale. L’Italia avrà sempre un ruolo centrale, nel design, perché è stata la genitrice, però il resto del mondo ha imparato e oggi ci sono scuole fantastiche, nelle quali si mutuano varie esperienze senza affidarsi a un solo docente di riferimento. Concettualmente, è una novità straordinaria».
Aneddoti di una vita nell’arte?
«Parecchi. Girando per il mondo, incontro tante persone. Mi sento a casa in molti luoghi ed è bellissimo. Quando sono a mio agio, condivido ciò che è positivo. Alla fine, quando torni nella casa vera, ti scopri arricchito».
Quale pezzo di design indicherebbe quale sua icona?
«Ne avrei tantissimi, ci sono alcuni progetti che non smettono mai di emozionarmi. Preferisco però ricordare oggetti che non hanno nome ma che si utilizzano da sempre. Ad esempio la puntina da disegno. O la graffetta. Sono due cose semplici che ci hanno accompagnato e ci hanno permesso di vivere bene e di risolvere problemi quotidiani. In un dischetto di metallo basta piegare un triangolino e ottieni una puntina, ovvero un qualcosa che funziona in maniera fantastica. Questo è design, questo mi emoziona».
Con il bianco e con il nero sembra che lei voglia esplorare la geometria, come se avesse un’anima.
«Ogni volta entro nella geometria, anche attraverso la matematica semplice, per capire che cosa mi può dare una forma. La forma mi offre sempre una lezione di conoscenza per proseguire. Una linea non è mai solo tale: basta girarla e cambia tutto. Sono innamorato del mio lavoro: il campo della forma è la base di ogni studio in tante direzioni, inclusa la vita. E non ho bisogno del colore, per questo: sarebbe solo di disturbo per le mie scoperte. Se poi coloro un oggetto, può anche essere bello. Ma il colore non aggiunge nulla».
Quanto è necessaria la provocazione nel suo mestiere?
«Se non è violenta, molto. La provocazione è anche conoscenza, è voler rubare che cosa c’è dall’altra parte, è contribuire a un dialogo. La provocazione è costruzione e formazione».
Bisogna sentirsi italiani?
«Non cambierei mai Paese. Bisogna essere fieri dell’Italia, ma di questa fierezza occorre essere degni. Non è lamentandosi sempre che si migliora; piuttosto, rimbocchiamoci le maniche».