Corriere della Sera, 3 agosto 2018
I mandanti, gli esecutori: cosa sappiamo 38 anni dopo sulla strage di Bologna
Le zone d’ombra, come dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ci sono e sono tante. A cominciare – e finire, poiché illuminandola si chiuderebbe il cerchio – da quella che copre i mandanti della strage. A trentotto anni dalla bomba che uccise 85 persone, ne ferì 200 e calò la saracinesca sul decennio della «strategia della tensione» avviato con la strage di piazza Fontana, non sappiamo chi e perché ordinò quella carneficina. Ci sono supposizioni, inchieste archiviate e riaperte, ma condanne nessuna. La «verità giudiziaria”», arrivata a quel capitolo, è rimasta una pagina bianca.
Gli anelli spezzatiNella ricostruzione iniziale del processo in cui venne inflitto l’ergastolo ai «ragazzini dei Nar» – Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, più Luigi Ciavardini che era minorenne e si prese trent’anni in un giudizio separato – i mandanti c’erano; si arrivava fino al capo della P2 Licio Gelli, che nell’80 era ancora un uomo potente e rispettato e solo dall’anno seguente, con la scoperta degli elenchi della sua Loggia segreta pieni di ministri, generali, capi dei servizi segreti e rappresentanti delle istituzioni a tutti i livelli, divenne il paradigma di ogni trama occulta. Ma nei vari gradi di giudizio, sentenza dopo sentenza, molti anelli della catena si sono spezzati, facendo uscire indenni il Gran Maestro, gli intermediari, i neofascisti della generazione precedente a quella dei Nar e altri presunti complici. Lasciando da soli, all’ultimo verdetto, tre «bombaroli» fuori tempo slegati da ogni contesto che continuano a proclamarsi innocenti ma, ammesso che siano stati loro, non possono che aver agito per conto di qualcun altro. Rimasto però ignoto.
Le nuove indaginiLe ulteriori indagini non hanno portato a niente di concreto, finché adesso un nuovo dibattimento a carico di Gilberto Cavallini – altro componente dei Nar ma di estrazione diversa da Mambro e Fioravanti, sia per origine che per età, particolare non irrilevante per questa categoria di terroristi neri – e una nuova istruttoria avocata dalla Procura generale di Bologna (guidata da Ignazio De Francisci, che da giovane giudice istruttore lavorò a Palermo nel primo pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) hanno riaperto qualche flebile speranza. Nel tentativo di illuminare le zone d’ombra. Sempre negli ambienti neofascisti, giacché le altre ipotesi esplorate (compresa quella alternativa di matrice medio-orientale, che passa per il terrorista internazionale Calos e per il tedesco Thomas Kram, che pure è stata accreditata da studiosi e magistrati non direttamente coinvolti nelle indagini) non ha trovato riscontri sufficienti. Almeno finora.
I legami con altre stragiDunque si continua a battere la «pista nera», com’è inevitabile dopo le condanne definitive dei tre appartenenti ai Nar. Con Cavallini, però, si sale di livello e forse di legami, se è vero che dal processo in corso stanno emergendo rapporti più solidi con Ordine nuovo, formazione eversiva di cui si trovano tracce consistenti (e in qualche caso prove concrete, che hanno portato a condanne) nelle altre stragi nere degli anni precedenti, in particolare quelle di piazza Fontana e di Brescia, del 1974. E forse addirittura con la struttura di Gladio, secondo qualche recente rivelazione. Il processo a Cavallini riprenderà a settembre, e chissà se dubbi e indizi si trasformeranno in prove. La nuova inchiesta, nella quale pochi giorni fa gli inquirenti hanno smentito di aver iscritto uno o più nomi nel registro degli indagati, partirebbe dagli accertamenti su un conto corrente svizzero e soldi in contanti nella disponibilità di Gelli; e c’è il sospetto che possano essere utilizzati per finanziare gli attentatori o il depistaggio ordito nel febbraio ‘81 con uno strano ritrovamento, sul treno Taranto-Milano, di armi, esplosivo dello stesso tipo di quello utilizzato a Bologna e documenti che facevano riferimento a personaggi stranieri.
Un “impistaggio”?Per quell’operazione furono condannati Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza (che ha chiesto invano di essere interrogato nel dibattimento in corso) e i due ex dirigenti del Sismi, Musumeci (comparso nell’elenco degli iscritti alla P2) e Belmonte. Ma c’è chi la ritiene non un depistaggio bensì un «impistaggio», giacché dai biglietti aerei trovati sul treno, intestati a nomi stranieri, si poté risalire a un volo dove comparivano, tra i passeggeri, tali Fiorvanti (mancava una consonante farlo coincidere il terrorista dei Nar) e Bottacin (una delle false identità utilizzate da Cavallini).
Dunque le zone d’ombra non mancano, e a ben vedere non risparmiano nemmeno il processo concluso con le condanne dei «ragazzini dei Nar», a partire dall’ambigua vicenda del supertestimone Massimiliano Sparti. Ecco perché, come avverte il capo dello Stato, occorre sostenere «l’incalzante domanda di verità e giustizia».