Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  agosto 02 Giovedì calendario

Cina, una base nel cuore della Patagonia per conquistare la Luna e sfidare gli Usa

La scalata cinese in America Latina riparte dal lato oscuro della Luna. «The Dark Side of the Moon», l’album esplorativo pubblicato 45 anni fa dai Pink Floyd, è stato premonitore dell’ultima sfida che Pechino si è imposta di vincere nella conquista dello spazio. Sbarcare sul lato più lontano della Luna, quello che non si rivolge alla Terra e che, appunto per questo, rende impossibili o quasi le comunicazioni ancor prima delle esplorazioni. 
Non secondo il Dragone, che sta lavorando da anni per mettere mano, anzi piede, su quella fetta di Luna attraverso una serie di progetti spaziali, uno dei quali nella lontanissima Patagonia. A Quintuco, deserto esso stesso dai paesaggi lunari, dove sorge un’antenna alta come un palazzo di 16 piani e pesante 450 tonnellate. È il simbolo della base di controllo satellitare che Pechino ha voluto a tutti i costi in Argentina, ma è anche il simbolo della nuova scalata cinese in America Latina, un mercato di 600 milioni di persone, oltre che il cortile di casa degli Stati Uniti, trascurato da Washington dalla fine della Guerra Fredda. 
Il negoziato segreto
La base, funzionante dallo scorso marzo, è il frutto di un negoziato sotto traccia avviato dalla Cina facendo leva sul disperato bisogno di investimenti dell’Argentina, alle prese con una crisi che ricorda quella dei tango bond. Un’opportunità per il Dragone, che in un rarissimo documento pubblico del 2008 parlava di proficua vicinanza tra le due sponde del Pacifico. Agevolata dall’inclinazione a sinistra della leadership di Brasile, Argentina, Venezuela, Ecuador, Uruguay e Bolivia. «Pechino ha trasformato le dinamiche della regione, dall’agenda politico-economica dei singoli Paesi, alla struttura delle economie per arrivare alla sicurezza», spiega Evan Ellis, esperto di America Latina al United States Army War College. Il timore infatti è che dietro l’interesse per questa porzione dell’Emisfero australe ci sia l’obiettivo di sviluppare capacità di intelligence in Occidente, costituendo una pericolosa spina nel fianco dell’America di Trump, impegnata in una guerra commerciale con la Cina: non a caso proprio ieri l’amministrazione Usa ha annunciato un aumento dei dazi, nella gran parte dei casi dal 10% al 25%, su 200 miliardi di dollari di importazioni «Made in China». Mentre il Senato vara una durissima legge nei confronti di Pechino, stanziando 716 miliardi di dollari in spese per la difesa, tutte mirate a contrastare le politiche cinesi: dal «furto» di tecnologie alle mire espansionistiche nel Mar della Cina Meridionale. Pechino risponde colmando i vuoti lasciati da Washington, in primis con l’uscita dell’America dagli accordi di libero scambio come quello, appunto, tra le due sponde del Pacifico. 
La centrale nucleare
In dieci anni, l’interscambio con America Latina e Caraibi, è a quota 244 miliardi di dollari, e gli investimenti in «venture capital» nella regione sono cresciuti da 30 milioni del 2015 a 1 miliardo di dollari del 2017. Un approccio audace quello del Dragone, con 2000 imprese che hanno portato 200 miliardi di dollari in infrastrutture. Pechino ha costruito una centrale nucleare in Argentina, un’autostrada in Colombia, un porto per container in Brasile, controlla il 35% della terza società energetica carioca e ha una linea di credito da 60 miliardi di dollari con Caracas su cui scorre il greggio venezuelano. Oltre a un contratto pronti contro termine da 5 miliardi con Buenos Aires sul prestito da 50 miliardi concesso dal Fmi per sanare le finanze argentine. 
I talenti del calcio
E il calcio non è da meno: il presidente Xi Jinping lo chiama «the great beauty», la grande bellezza, e il Paese è ghiotto di talenti sudamericani per la proprietà dei quali, nel 2016 i club cinesi hanno sborsato 451 milioni rispetto ai 51 milioni del 2012. Ma con un obiettivo «sovrano»: rafforzare l’immagine del calco nazionale per investire nei vivai, e diventare leader in Asia nel 2030 e campioni del mondo entro il 2050. Ovviamente dopo aver conquistato «The Dark Side of the Moon».