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 2018  agosto 02 Giovedì calendario

Alla tavola del re Giorgio Armani

La tavola del re. Anzi, le molte tavole, visto che i locali firmati Armani in giro per il mondo sono ben venticinque. Un impero gastronomico con due solide stelle Michelin a Milano e Parigi e una terza molto desiderata (ma non ancora conquistata) a New York. Lui, re Giorgio, tutto sovrintende e governa, dall’alto di una vita lunga e intensa, segnata a tavola dalla tradizione piacentina-mediterranea e dalle contaminazioni del mondo, a partire da quella orientale. Un fil rouge che lega tutte le cucine del brand, tra ricette codificate e modulazioni globali, dai semi di pomodoro vesuviano messi a dimora nell’orto di pertinenza del ristorante Armani di Santiago del Cile, la Pork Room a Dubai e i dolci dedicati al Ramadan. Resta da scoprire l’Armani segreto, quello a cui la sorella un giorno svelò la ricetta del casoncello piacentino della mamma, fazzoletto chiuso e pizzicato con ricotta e spinaci, oggi riprodotta fedelmente dai suoi cuochi. Per una volta, in passerella non gli abiti, ma il cibo: la sfilata in tavola di re Giorgio.
Com’era il cibo della sua infanzia?
«C’è un piatto, il mio preferito in assoluto, che racchiude il ricordo della mia infanzia e delle mie radici: sono i tortelli alla piacentina, che qualcuno impropriamente confonde con i ravioli di magro. Sono delicatissimi, da condire soltanto con burro appena fuso e parmigiano. I migliori in assoluto erano quelli che faceva mia madre: ho ancora in mente la sua espressione soddisfatta mentre li portava in tavola. I tortelli rappresentano la memoria dei pranzi domenicali di famiglia. Erano il preludio al tanto desiderato momento in cui mio padre si lasciava convincere da me e da mio fratello e ci portava al cinema».
Come dire, necessità, ma anche valore.
«Non c’è dubbio che il cibo sia un bisogno primario. Ma proprio il suo essere fondamentale per vivere ne ha esaltato il valore sociale. Nel cibo ci si riconosce, si trovano memorie comuni, radici, il gusto e il bisogno di comunità. Non a caso, tutti provano a cucinare almeno una volta nella vita. L’ho fatto anch’io: ho sempre pensato però che per cucinare bene occorrano tempo e una grande passione».
Le piace mangiare?
«Sono un buongustaio-salutista, per niente mangione, ma grande estimatore della cucina genuina, leggera e mediterranea. Anche nei momenti più intensi di lavoro, non rinuncio mai alla mia pausa, a sedermi a tavola e mangiare... Mi piacciono le verdure e tutti i piatti a base di verdure, che sono il filo conduttore della mia alimentazione. Sento che mangiando in modo sano il mio fisico ne trae equilibrio e beneficio. Amo l’equilibrio, l’armonia degli accostamenti, la selezione attentissima delle materie prime e degli ingredienti. Essere contemporanei significa partire dal classico e modificarlo con qualche tocco di innovazione e di esotismo. Ma senza stravolgimenti e senza i protagonismi eccessivi di certe trasmissioni televisive».
Da lì all’inclusione del cibo nel concept Armani, il passo è stato breve.
«Ho aperto il mio primo Emporio Armani Caffè in tempi non sospetti, nel 1998, anticipando il trend mutuato successivamente da molte griffe del mondo della moda. Allora pensai che potesse funzionare un luogo in cui concedersi una pausa durante lo shopping, o dove prendere un aperitivo dopo il lavoro. Ho pensato a un format essenziale ma piacevole, facile da inserire in contesti cittadini diversi. Il progetto rispecchiava un desiderio molto più grande: proporre uno stile di vita completo, declinando lo stile Armani nei diversi momenti della quotidianità. Ristoranti e caffè mi sono sembrati un’estensione logica, ma anche una scommessa interessante, che col tempo ha dato i suoi frutti».
Come è stato il suo approccio alla ristorazione?
«Quando ho cominciato avevo ben chiara l’intenzione di offrire il meglio anche nel campo della ristorazione, ma non avevo ancora deciso quale strada percorrere. Con il passare del tempo, ho capito che volevo qualcosa che mi esprimesse fino in fondo: dunque, la cucina italiana. Le stelle Michelin ai ristoranti di Parigi e Milano mi stanno dando ragione».
Cibo e moda sembrano diventati un binomio inscindibile.
«Le mode legate al cibo si formano continuamente sotto i nostri occhi. Non sono manie: semplicemente, oggi si trovano ovunque degli ingredienti che un tempo erano solo locali. È il modo di vivere, viaggiare, conoscere, che cambia la cultura alimentare. Io però apprezzo da sempre la semplicità, la qualità, il senso della tradizione. Quindi non amo le mode passeggere in cucina, mentre apprezzo il tocco originale che può innovare un piatto classico senza stravolgerlo. E poi mi piacciono le tavole ben apparecchiate, le presentazioni curate, senza eccessi o trovate eccentriche. È una visione che rispecchia la mia filosofia: coerenza, ricerca continua di perfezione ed evoluzione, creatività, ma senza il desiderio di stupire a tutti i costi».
I suoi posti del cuore?
«Quando sono a Broni, vado al Falco nel Piacentino, mentre se sono a Portofino mi piace cenare da Puny. D’estate, a Pantelleria, vado spesso all’osteria Il Principe e il Pirata. All’estero, a Saint- Tropez, vado all’Auberge des Maures, mentre a Parigi torno ogni volta volentieri da Chez l’Ami Louis. Di recente sono stato da Sartoria e alla Locanda Locatelli a Londra. Sono luoghi dove so di trovare una cucina eccellente, ambienti piacevoli e un servizio attento e discreto».