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 2018  agosto 02 Giovedì calendario

La folle corsa di Basquiat

Quanto a vite bruciate, Jean-Michel Basquiat, il genio nero dei graffiti, non ha eguali. Fu chiamato il James Dean dell’arte e come l’attore «ribelle» bruciò la sua vita a una velocità folle. Morì esattamente trent’anni fa, il 12 agosto 1988, non ancora ventottenne, divorato dal mito precoce e dall’eccesso di tutto, anche di disperazione. Il «genio bambino», nato a Brooklyn, è figlio di Gérard, un distinto (e manesco) contabile haitiano originario di Port-au-Prince, e di una madre statunitense di famiglia portoricana, Matilde, donna severa e imprevedibile, spesso preda di attacchi violenti che scatena sulla prole e sul marito. «Mia madre – ricordava Jean-Michel – diventò pazza per via del pessimo matrimonio con mio padre. Da giovane era bella, ma ora ha una ruga per ogni dispiacere che ha dovuto sopportare». La separazione dei genitori, tra litigi anche sanguinosi, fughe e ricoveri in casa di cura, sarà inevitabile. Ma è Matilde che accompagna il figlio verso l’arte sin da quando, a tre-quattro anni, il bambino comincia a disegnare ispirato dai cartoon televisivi. È il padre, invece, a trasmettergli la passione per la musica jazz che circolava già nella famiglia dei nonni.
Un giorno, a sette anni, mentre gioca per strada Jean-Michel viene investito da un’auto: la degenza in ospedale, dopo l’asportazione della milza, gli permette di conoscere l’«Anatomia del Gray», un libro, donatogli dalla madre, che diventerà fondamentale nel suo immaginario di pittore ossessionato dalle visioni anatomiche. Affidato al padre, che va a vivere in una nuova casa distratto da donne sempre diverse, Jean-Michel deve fare da baby sitter alle due sorelle nelle frequenti assenze del genitore. La vita «lucente e breve» di Basquiat viene raccontata in una bella, ricca biografia di Phoebe Hoban che Castelvecchio riproporrà a settembre.
Breve, d’accordo, ma a parte le luci della ribalta che ben si conoscono, sulla luminosità della vita di Basquiat ci sarebbe da discutere. Con la fuga da casa (e da scuola) nel 1975, per Jean-Michel sarà come salire su un ottovolante: «Ero nella mia stanza che fumavo erba, – raccontò – entrò mio padre e mi ferì al culo con un coltello. Pensai che era meglio andar via prima che mi uccidesse, sai com’è». Da ragazzino dolce e allegro diventa diffidente e ostile al mondo. Con due valigie di cibo in scatola si sistema in un parco, poi alloggia in un ricovero per ragazzi sbandati, conosce spacciatori, ubriaconi e scippatori di vecchiette, cammina per giorni senza dormire e senza mangiare altro che croccantini al formaggio, meditando di fare il barbone per sempre, va a vivere in una baracca di Washington Square Park, dove rimane seduto per mesi a farsi di acido circondato da gang di ogni genere, hippy, hooligan e graffitisti di strada. Quando la polizia, mobilitata dal padre, riesce a rintracciarlo, si trova di fronte a una specie di straccione con la testa rasata a zero che già consuma eroina. L’inserimento in una scuola alternativa per adolescenti problematici, collocata dentro una chiesa greco ortodossa, serve a poco: si tratta in realtà di una specie di parco giochi del sesso e della droga.
È lì che conosce Al Diaz, il suo futuro compagno di graffiti con il quale matura per scherzo l’idea SAMO, l’acronimo di «The Same Old Shit» (la solita vecchia merda) con cui firmeranno, per le strade di New York, i loro interventi strampalati ed ermetici con bombolette spray e pennarelli indelebili: «SAMO è tutto, tutto è SAMO, SAMO la religione che non ti fa sentire in colpa». Il concetto, vestito di surrealtà, che tutto è sempre la stessa cosa e che la società ti intrappola nella sua ripetizione, piace e fa rumore. I due amici, che nel frattempo frequentano attivamente la scena musicale, si divertono con bravate selvagge capaci di attrarre la critica oltre che la polizia. Il resto è la storia «lucente» (si fa per dire) ben nota. L’incontro con Andy Warhol in un ristorante di Soho, dove Basquiat era entrato per vendere delle cartoline illustrate da lui, l’ingresso nella Factory del re della pop art, l’accoglienza nei club più esclusivi dell’arte newyorkese, la breve relazione con Madonna, l’amicizia con Keith Haring, il successo delle sue opere popolate di figure infantili, di teschi e scheletri, segni primitivi, geroglifici, scritte, scarabocchi, la partecipazione a collettive e retrospettive «new wave», le interviste, le apparizioni in tv, la prima mostra personale nel 1981 a Modena nella galleria d’arte di Emilio Mazzoli. Poi la Svizzera, Rotterdam, di nuovo Zurigo, Tokyo, Londra, Parigi, Lisbona, Abidjan, nel 1985 la copertina del «New York Times Magazine»: seduto nel suo studio di Great Jones Street, il pennello in mano, il piede nudo posato su una sedia rovesciata, il completo Armani. E ancora l’establishment dei galleristi, dei mercanti, degli agenti, i capricci del mercato, la bella vita, la limousine con autista, le ragazze, l’ottovolante della tossicodipendenza e della depressione, dell’esaltazione, dell’ambizione, della improvvisa marginalità e del precipizio.
La biografa lo descrive come un astronauta hip hop venuto da un altro pianeta, l’artista che mangiava, dormiva e camminava sui suoi dipinti. Gli amici lo trovarono agonizzante sul pavimento della sua stanza per un’overdose di eroina, provarono a scuoterlo ma non ci fu nulla da fare. La settimana dopo i periti di Christie’s fecero l’inventario di quel che Basquiat aveva lasciato nel suo loft: 917 disegni, 25 album di schizzi, 85 litografie, 171 dipinti. Oggi le sue opere vengono vendute all’asta per milioni di dollari.