il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2018
Campo profughi
Caro direttore, come cittadino che paga il canone, incazzato per come finora i governanti si siano ritenuti padroni del servizio pubblico televisivo (ultimo Renzi, il peggiore) manipolando e negando una corretta informazione, oggi mi pongo di fronte alla nuova gestione Rai con la speranza che non riproponga lo stesso disprezzo per i cittadini. Non entro nel merito delle leggi sull’emittenza televisiva che sono state concepite finora dai governanti per proprie finalità politiche e non come servizio pubblico democratico. Credo addirittura che anche l’attuale legge renziana, finalizzata al controllo assoluto dell’informazione, non obblighi a scelte negatrici dei diritti dei cittadini. Voglio credere (a 81 anni) nonostante tutto anche a scelte fatte dalla buona politica. Ho votato perciò per i 5Stelle (senza incanto) il 4 marzo. Aspetto e giudicherò. Come lettore del Fatto, non ho l’ideale di un giornale dal “pensiero unico”, ma nemmeno con una linea di posizioni contrapposte, che disorientano e non aiutano alla comprensione dei fatti. Domenica scorsa Travaglio scrive: “… il Pd e FI, cioè i più volgari lottizzatori dell’ultimo quarto di secolo, hanno trasformato la Rai da grande azienda culturale a ufficio di collocamento per trombettieri e trombati, raccomandati e poco raccomandabili, amanti e leccaculi (fatte salve le solite eccezioni, peraltro ridotte al lumicino dalla stratificazione delle epurazioni)…”. Contemporaneamente Padellaro si risente perché Di Maio ha promesso di cacciare i “raccomandati e parassiti” e lo accusa di “sparare nel mucchio indiscriminatamente, facendo intendere illogicamente che Di Maio si riferisca a tutti, anche a quelli che ogni giorno mandano avanti con passione e professionalità la Rai (compresi Report e Presadiretta)”. A ognuno, ovviamente, il proprio diritto e la propria libertà: a Travaglio e a Padellaro delle loro opinioni, al Fatto della sua concezione del pluralismo giornalistico, al lettore del Fatto delle sue perplessità.
Salvatore Giannetti
Caro Salvatore, la sua lettera mi dà l’opportunità di chiarire, come ogni tanto è giusto fare, la “linea” del nostro giornale. Quando, nove anni fa, lo fondammo con Antonio Padellaro e un pugno di colleghi temerari, sapevamo benissimo di condividere alcuni valori fondamentali, pur partendo da idee molto diverse. Infatti Antonio, nel suo editoriale di esordio, spiegò che la nostra “linea politica” era né più né meno la Costituzione. Quando poi la direzione toccò a me, fui tentato di stampare sotto la nostra testata un aforisma di Altan: “Mi vengono in mente pensieri che non condivido”. Sa, in questo mestiere non bisogna mai prendersi troppo sul serio.
Meglio conservare un certo distacco autocritico da tutto, anche dalle proprie idee, disposti a metterle in discussione se i fatti (non le convenienze) vanno in direzione opposta. Il Fatto non è un partito, né una chiesa, né una caserma. È un campo profughi che dà un tetto, un pasto caldo e una tribuna a chi non può scrivere liberamente altrove. Infatti, da direttore pro tempore, mi capita spesso di pubblicare con grande gioia commenti che non condivido. Mi rendo conto che qualche lettore può esserne disorientato, ma poi le lettere che riceviamo dicono che anche la nostra comunità di lettori è molto variegata e plurale. Tantopiù in una fase politica caotica e liquida come questa, con milioni di voti come palline da flipper. Senza tante chiacchiere retoriche sul pluralismo, penso che mettere a confronto teste, idee e voci diverse sia un arricchimento, non una cacofonia. Fermo restando che un’antica convenzione vuole che la “linea” del giornale sia rappresentata da ciò che scrive il direttore. Il che non vuol dire che abbia sempre ragione lui: è un po’ come la Cassazione, che per convenzione ha l’ultima parola sui processi, ma non è affatto detto che la sappia più lunga di pm e giudici di tribunale e d’appello.
Nel caso però dei nostri due commenti sulla Rai da lei citati, caro Salvatore, Padellaro e io eravamo perfettamente d’accordo. Semplicemente affrontavamo la questione da due prospettive diverse. Antonio bacchettava giustamente Luigi Di Maio per la sparata contro i “raccomandati e parassiti”: non perché la Rai non ne pulluli, anzi, ma perché ora Di Maio è il capo del partito di maggioranza relativa, il vicepresidente del Consiglio e il ministro del Lavoro, Sviluppo e Telecomunicazioni e non può più parlare come un leader d’opposizione: sia perché il governo non deve mai intimidire chi fa informazione, sia perché spetta anche a lui cambiare le regole del servizio pubblico per premiare il merito anziché l’obbedienza. Io invece esprimevo i miei giudizi feroci sul livello deprimente di conformismo e leccaculismo di gran parte dei piani medio-alti della Rai, sempre pronti a saltare sul carro del vincitore. Ma queste, appunto, sono cose che può dire un giornalista, non un vicepremier. Altri lettori hanno notato una divergenza fra me e Padellaro su Marcello Foa, designato dai giallo-verdi alla presidenza della Rai in quota Lega. Se così fosse, non ci sarebbe nulla di male, né di strano. Ma anche su Foa è solo una questione di prospettive: Padellaro contestava alcune esternazioni di Foa pro-Putin, anti-euro e anti-Mattarella. Anch’io dissento dai No Euro (ma anche dai tifosi acritici di questo sistema dell’euro) e, se proprio devo esprimere “disgusto”, lo riservo più a Putin che a Mattarella (che ho duramente criticato per alcune scelte). Penso però che nessuno possa essere processato od ostracizzato per le sue idee e che un intellettuale e manager qualificato come lui, anche se non la pensa come me, abbia tutto il diritto di presiedere la Rai, visto che è competente e non deve la sua carriera a un partito. Poi, come tutti, lo giudicheremo da ciò che farà.