Corriere della Sera, 1 agosto 2018
Norman Manea: «Io e Philip Roth, trent’anni di amicizia oltre le differenze»
Se dovessi scegliere una sola, tra le molte qualità e contraddizioni che lo distinguevano dai suoi contemporanei, punterei il dito sul suo rifiuto ostinato della banalità, del luogo comune, della coscienza appannata dal quotidiano, in cui l’ostentata indifferenza, l’attaccamento tribale, le complicità dettate da ipocrisia o da cautela, e la cecità collettiva generano mostri. «Sono stato costretto a spremere fuori, goccia a goccia, il bravo ragazzo ebreo che mi portavo dentro», ebbe a dire Roth. Ricordo che mi telefonò dal luogo in cui trascorreva le vacanze, all’epoca in cui mi passava i manoscritti sui quali stava lavorando, e mi disse che voleva salvare le mie osservazioni con l’aiuto di un registratore. «Ma che stai facendo?» gli chiesi. «Mi fai pensare alla Securitate in Romania…». Mi rispose: «Sto invecchiando, che ci posso fare? La memoria mi tradisce». Ma non era vero. O non proprio. Possedeva una memoria eccellente, specie quando scriveva e leggeva, quando si trattava di letteratura.
Il dilemma che voleva discutere era prettamente letterario. Nel manoscritto del suo capolavoro, Il teatro di Sabbath. «L’amante chiede al compagno di giurargli fedeltà: di non andare mai a letto con nessun’altra donna, all’infuori di lei! Come si può rispondere a una simile assurdità? Quale sfacciataggine…». Ci siamo confrontati a più riprese con la richiesta espressa dall’amante, la quale, tra parentesi, vive una sessualità assai disinvolta. Dopo qualche riflessione, lo scrittore ha risolto il paradosso. «Ecco! Lui le chiede di andare a letto con il suo caro maritino! Quella è la condizione. Lui le sarà fedele, se lei ricomincia ad andare a letto con il marito. Entrambi sanno benissimo che questo non è più possibile…».
Nulla dovrebbe ostacolare il libero esercizio dell’immaginazione, la libertà creativa, e quella libertà personale fondamentale che sfida e sconfigge gli arcinemici della creatività.
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Pur avendo ricevuto un’infinità di riconoscimenti internazionali, Philip Roth non ha mai vinto il Premio Nobel. I premi vengono assegnati da persone, le quali, in quanto persone, sono esseri imperfetti. Se – mettiamo – il Nobel fosse attribuito da un computer, anche questo sarebbe imperfetto, perché non può esistere un’equazione impersonale per un territorio spirituale talmente fluido, sconfinato e variegato. Non riesco nemmeno a convincermi che sia stata poi una gran tragedia, non averlo vinto! Philip Roth è in ottima compagnia, con tanti altri scrittori dimenticati dal Nobel: Tolstoj, Proust, Joyce, Kafka, Borges…
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Un’amicizia trentennale tra scrittori (una professione vanitosa, l’ha definita Camus) non è poi così comune. Ma Roth ha pensato a provvedere persino per l’aldilà, scrivendo l’anno scorso a Leon Botstein, il presidente del Bard College, per chiedere che gli venisse assegnata una tomba al Bard, accanto alla mia, in modo da non annoiarsi in quell’interminabile «altrove» (nelle sue parole). Per questo motivo oggi riposa al Bard, e mi aspetta. Non perché ci tenesse a un cimitero ebraico, come è stato riferito da alcuni giornali. Il cimitero del Bard non è ebraico, anzi, è aconfessionale e ci sono sepolti persino gli atei. Il funerale che vi si è svolto lunedì, 28 maggio, era laico, per sua espressa volontà. Gli oratori da lui prescelti non avrebbero parlato di lui, ma ognuno di loro avrebbe letto qualche brano estratto dai suoi libri.
Io ho letto un pezzo estratto da L’animale morente, il libro che mi dedicò nel 2001.
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Nel 1988, al termine della borsa di studio per la Germania, gli scrissi per dirgli che non sapevo dov’ero diretto, ma solo che, in quel momento, non potevo più tornare indietro. Non volevo prendere nessuna decisione definitiva, preferendo aspettare in Occidente il tanto auspicato trapasso del nostro «amatissimo figlio del popolo», come la stampa nazionale chiamava il dittatore Ceausescu.
I miei tentativi di ottenere un’altra borsa di studio in Germania o in Francia erano andati a vuoto. Philip Roth mi disse di contattarlo, caso mai mi fossi deciso per l’America. Quando sbarcai a Washington, Roth mi invitò a New York, alla Essex House, dove alloggiava in quel periodo. Gli risposi per chiedergli di posticipare la mia visita, in quanto non parlavo ancora inglese e stavo per cominciare un corso di lingua per i nuovi arrivati. «Non fa niente, abbiamo le mani, abbiamo gli occhi, riusciremo a capirci». Voleva che gli portassi qualcosa di mio, tradotto in inglese, ma non avevo altro che un racconto alquanto stringato, intitolato Il tè di Proust, pubblicato da una rivista londinese. «Portami qualunque cosa».
Arrivai timidamente nel grande albergo, mi accompagnava Cella. La stanza era spaziosa. Roth era seduto sul divano, i piedi sul tavolino, con un sorriso di incoraggiamento. Mi avvicinai per porgergli le poche pagine del mio racconto. Silenzio. «Proust? Proust, hai detto? Ho provato a leggerlo una ventina di volte e non sono mai andato oltre pagina 15…». Mi sentii gelare. In Romania ci avevano detto che se non ti piaceva Proust, la letteratura non era pane per i tuoi denti. Che cosa mi restava da dire al grande scrittore americano? Nulla. Non riuscii a spiccicare parola.
Poi una nuova impennata: «Céline, non Proust! Céline è il mio Proust!» Mi sentii immediatamente spiazzato… sapevo che Céline era un grande scrittore, ma anche un acceso antisemita. Lo avevo letto con molto interesse, e altrettanto sconcerto. Accennai un debole sorriso mentre mi accomodavo sul divano, accanto a Cella, preparandomi al colpo successivo. Ma la conversazione a quel punto si era fatta più cordiale, malgrado gli inevitabili ostacoli della lingua. Alla fine, Roth appuntò alcuni nomi, indirizzi e numeri di telefono su un foglio di carta. Robert Silvers, Rose Marie Morse, Mary McCarthy. «Sono amici miei e sanno il francese, così potrete parlarvi». Mentre uscivamo dall’albergo, ancora intimorito, giurai a Cella che non l’avrei mai più contattato. «Basta, non ne voglio più sapere!».
Quel nostro primo incontro, tuttavia, fu ben presto acqua passata. Il maestro cominciò a telefonarmi tutte le settimane, per sapere come stavo, se il mio inglese migliorava. «Hai altre opere tradotte in altre lingue?». Avevo due libri in tedesco. Roth mi passò l’indirizzo di Leon Botstein, il presidente del Bard College, il quale, come appresi, conosceva il tedesco. Gli inviai i miei libri e ne ricevetti una risposta entusiasta, carica di elogi, nella quale mi paragonava agli scrittori contemporanei tedeschi che ammiravo… Poi conobbi Mary McCarthy, che insegnava al Bard. E anche lei mi raccomandò a Botstein.
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L’amicizia con Philip andò rafforzandosi negli anni. Ciascuno di noi celebrava gli avvenimenti della vita dell’altro e la vigilia di Capodanno ci vedeva sempre riuniti a casa nostra. Al termine dei festeggiamenti per il mio settantacinquesimo compleanno all’Istituto culturale romeno di New York, Roth si mise a gridare: «Anch’io voglio una festa così! Ma che non duri solo due giorni, io voglio che ne duri cinque!».
Col passar del tempo, Philip ed io ci siamo visitati vicendevolmente in ospedale. Negli anni più recenti, abbiamo fatto quasi a gara – che triste gara! – per chi di noi contava il maggior numero di stent alle coronarie: per un po’ sono stato io il vincitore, ma alla fine Philip mi ha sorpassato, con ben sedici stent…
La nostra amicizia ha saputo superare ogni genere di differenze tra di noi, già manifestatesi sin dall’inizio, con le preferenze accordate chi a Proust, chi a Céline, ma il legame che ci univa era forte, affettuoso e duraturo.
Per me, è stata una ricompensa più che generosa per l’esilio patito.
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Nel novembre del 2012, Philip Roth annunciò di aver smesso di scrivere. Era stanco, evidentemente. Scrivere, oltre a essere una professione vanitosa, richiede un’enorme attenzione e concentrazione, e questo alla lunga logora. Lo prendevo in giro, dicendogli che il suo ritiro altro non era che il soggetto del prossimo libro che stava già scrivendo in segreto… Ma non era così. La salute lo stava abbandonando. A 85 anni, è troppo tardi per sperare in una nuova e miracolosa giovinezza.
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Ne Il fantasma esce di scena, pubblicato nel 2007, Nathan Zuckerman, l’alter ego dello scrittore, chiede: «Chi, tra i tuoi contemporanei, sarà l’ultimo a morire? Chi, tra i tuoi contemporanei, sarà quello che avrà meno probabilità di morire? Chi, tra i tuoi contemporanei, non solo sfuggirà alla morte, ma saprà descrivere con umorismo, precisione e modestia il suo stupore e la sua sorpresa nell’aver conquistato la vita eterna?». È una valanga di domande retoriche che non appaiono fuori posto in occasione della scomparsa di Philip Roth.
Ne Lo scrittore fantasma, l’affascinante racconto di Roth che precedette di molti anni Il fantasma esce di scena, Anna Frank riesce a sopravvivere e sbarca in America, per innamorarsi del suo professore all’università: un impressionante preludio ai suoi interrogativi epici, recanti l’eco delle domande sconnesse che la vecchiaia rivolge al vuoto, privo di voce e di memoria.
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La letteratura – quella americana e quella mondiale – ha perso uno dei più brillanti scrittori della modernità, una forza creativa incomparabile. Nella crisi planetaria che travaglia il nostro tempo, con tanti attacchi contro il nostro ambiente spirituale, sentiremo sempre di più la mancanza della sua intensità, etica lavorativa, onestà intellettuale, umorismo e umanità.
Cella ed io siamo sopraffatti dalla tristezza e dalla solitudine. Per trent’anni Philip Roth è stato il nostro fratello americano, sempre presente, affettuoso, energico, vitale e disponibile, un interlocutore unico e insostituibile. Il nostro esilio si è fatto più cupo e sofferto. Ma saremo sepolti uno accanto all’altro. Con la speranza che così ci sentiremo meno sperduti e soli, nel deserto sconfinato dell’aldilà.
(Traduzione di Rita Baldassarre)