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 2018  agosto 01 Mercoledì calendario

«Era morta, io l’ho fatta a pezzi». Oseghale svela la fine di Pamela Mastropietro

«Si, è vero. Ho fatto a pezzi il corpo di Pamela, ma non l’ho uccisa e nemmeno violentata. Era già morta, per malore, dopo essersi drogata». Dal carcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno) arriva la svolta – l’ennesima – nel giallo della tragica fine di Pamela Mastropietro, la diciottenne romana fuggita dalla comunità di recupero Pars di Corridonia nel pomeriggio del 29 gennaio scorso, fatta a pezzi e ritrovata la mattina del 31 in due trolley abbandonati nelle campagne di Pollenza, nei pressi di Macerata. Innocent Oseghale, 29 anni, in cella accusato per omicidio, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere, ha ammesso per la prima volta davanti al procuratore Giovanni Giorgio di aver sezionato il cadavere della ragazza nella sua abitazione in via Spalato. 
La confessione, secretata dalla Procura per alcuni giorni, apre tuttavia nuovi interrogativi, mentre gli inquirenti restano convinti che lo spacciatore nigeriano, incastrato da tracce di Dna sul corpo della vittima e sui trolley, abbia invece ucciso la ragazza a coltellate dopo averla violentata. «Non l’ho toccata – ha spiegato ancora Oseghale, secondo uno dei suoi avvocati, Simone Matraxia —, quella mattina (il 30 gennaio) ho avuto con lei un rapporto sessuale consenziente nei sottopassi dei Giardini Diaz, poi siamo andati da Desmond Lucky (scagionato dagli esami del Ris insieme al connazionale Awelima Lucky, i due sono in carcere ad Ancona per spaccio, ndr) ad acquistare una dose di droga e infine a casa mia». Lì, in via Spalato, Pamela, secondo la versione fornita da Oseghale, si sarebbe iniettata l’eroina sul letto. 
«Ma poi si è sentita male – ha proseguito il nigeriano, che ha parlato sempre in inglese tradotto da un interprete —, non sapevo cosa fare. Le ho lanciato dell’acqua sulla faccia per farla rinvenire, poi ho telefonato a un amico (Anthony Anyanwu) per un aiuto e lui mi ha detto di chiamare subito i soccorsi, un’ambulanza». Ma Oseghale non l’ha fatto né in quel momento né più tardi, quando – stando a quanto riferito nell’interrogatorio, sempre secondo l’avvocato Matraxia, che lo difende con il collega Umberto Gramenzi – ha incontrato di persona nei pressi di via Spalato proprio Anyanwu, che gli avrebbe ripetuto, inutilmente, il consiglio di avvertire qualcuno. «Per due ore il mio assistito non è tornato a casa. Ha detto di aver fatto dei giri per Macerata per consegnare droga, poi è rientrato in via Spalato, ma a quel punto la ragazza era morta», afferma ancora il legale del nigeriano. Uno scenario che, se confermato in giudizio, rende tutta la vicenda ancora più tragica perché lascia aperta la concreta possibilità che Pamela potesse essere salvata.
Sarebbe stato in quel momento che Oseghale, «preoccupato anche dalla possibile reazione della sua compagna alla notizia di un’altra donna in casa sua», ha deciso di fare a pezzi il corpo, usando due coltelli da cucina, «uno grande e uno piccolo», «senza nessuna esperienza in questo genere di cose», assicura l’avvocato Matraxia, che contesta le conclusioni della perizia medico-legale secondo la quale quella macabra operazione è stata eseguita invece da una persona esperta. «Ho pensato di nascondere i resti della ragazza in un grosso borsone che ho comprato in un negozio di cinesi vicino casa mia», avrebbe aggiunto poi Oseghale, che una volta tornato in via Spalato si è accorto che non era sufficiente e allora ha utilizzato i due trolley, uno di Pamela e un altro che aveva nell’appartamento. Secondo la difesa del nigeriano, inoltre, le ferite che l’autopsia ha definito mortali inferte con un coltello sarebbero in realtà state soltanto «prove di sezionamento» perché, ribadisce Matraxia, «la povera ragazza non è morta perché colpita con un coltello quando era in vita».