il Giornale, 1 agosto 2018
Raniero Gnoli: «È da 80 anni che leggo i marmi»
Ti lasci alle spalle un centro commerciale che gravita come un oggetto alieno nelle campagne, già oltre la via Claudia Braccianese. E imbocchi un viale, sconnesso per le radici riaffioranti dei pini marittimi, uscendo dal nostro tempo per entrare in quello immobile di Castel Giuliano, l’antica tenuta di campagna dei marchesi Patrizi Naro Montoro. Il cancello del palazzo è serrato, ma alle tue spalle s’alza una voce. «Ha un appuntamento? Deve solo passare per quel portoncino, e si ritrova nel giardino». È una donna, sta pulendo l’uscio di una casa che sta nella spina di costruzioni che sono di fatto tutto il borgo, se si aggiunge una piazza con poca ombra e una chiesa moderna, costruita in attesa di chissà quale fedele.
Guadagnato l’ingresso, l’imbarazzo si ripete. In giro non c’è nessuno. Un’altra donna si affaccia da una finestra. «Cerco il signor Raniero». «Deve girare attorno al palazzo, e si ritrova davanti al portone. Lo spinga, è aperto». Il prato è bellissimo, tagliato da poco. L’androne vastissimo e bene illuminato. Le scale due. Quale prendere? Da una porta che dà sull’ammezzato si affaccia una donna, la terza. «Devo andare da Raniero Gnoli». «A destra. Salga al secondo piano. C’è anche un ascensore, se vuole». Ma lo scalone non è ripido, coppie di busti nelle nicchie, perfettamente conservate, vegliano sul visitatore ancora un po’ disorientato. La porta è aperta. Suono una prima volta. Una seconda. Non si vede nessuno. Mi decido allora ad entrare. E finalmente mi viene incontro lui, Raniero.
È molto alto, gli occhi chiarissimi, gli abiti informali che si portano in una casa di campagna, il passo sicuro, nonostante gli ottantotto anni. Mi invita subito a passare in un ambiente da cui ci divide una piccola scala, che supera senza esitazioni. Mi indica alcune sedie. «Possiamo accomodarci lì». Attorno a noi stelle marine, bellissime, enormi conchiglie, gusci di carapace appesi come corazze da parata, denti di narvalo. Una Wunderkammer in piena regola, disposta in maniera informale, mescolando oggetti straordinari ad altri di uso comune. E poi grafiche, disegni, teche che riguardano le pietre colorate, e mi riportano al motivo della mia visita, la ristampa, per i tipi di La nave di Teseo, di uno dei libri capitali del mio ospite, Marmora Romana, certamente il più conosciuto tra quelli che non appartengono alla dottrina che ha a lungo insegnato, il Sanscrito e l’Indologia.
Chiedo a Gnoli – che è cugino del pittore Domenico, morto giovanissimo a 37 anni nel 1970, artista di straordinaria eleganza che compendiava in maniera irripetibile pop art, metafisica e iperrealismo – di rievocare le circostanze in cui nacque questo testo che, giunto ora alla terza edizione in quasi cinquant’anni (uscì nel 1971), è oggetto di un culto febbrile, ed era ricercatissimo nelle librerie antiquarie. «Mi sono sempre interessato, sin da quando avevo sedici anni, di cose indiane. Di filosofia dell’India, storia dell’estetica indiana, della speculazione estetica e del teatro. Quando avevo diciott’anni incontrai Giuseppe Tucci, che è stato a tutti gli effetti il mio maestro, e che ho seguito sino alla morte, nel 1984. Mi sono occupato di filosofia e linguistica indiane, perché la base dei miei studi resta il sanscrito. Tucci andò in pensione nel 1964 e io subentrai nel suo ruolo, anche se l’insegnamento cambiò nome. Lui era professore di Filosofia e Religione dell’India e dell’Estremo Oriente. Invece io ho insegnato Indologia, e per divertimento mi sono occupato di marmi, che erano un po’ nel mio destino. Già da bambino andavo a cercare marmetti, mio padre conosceva bene le pietre e mio zio Umberto, storico dell’arte, mi regalò il trattato del Corsi, Delle Pietre Antiche, che conservo ancora. Questo mio interesse ritornò a manifestarsi con forza quando avevo una ventina d’anni e divenne proprio una passione. Cominciai a studiare le fonti latine e greche dal punto di vista filologico, e andai a vedere delle cave nelle diverse aree del Mediterraneo e dell’Africa del Nord, che allora erano più accessibili di oggi. Quella passione prese così la forma di questo libro».
Attraverso le fonti letterarie di Stazio, Sidonio Apollinare, Paolo Silenziario, Gnoli ricostruisce anche una storia dell’estetica, e si può leggere come un trattato di estetica che ha come oggetto il nostro sguardo sul mondo antico. «In fondo mi sono sempre occupato di restaurare e conservare. Ho letto manoscritti sui supporti più impensabili, e ho cercato di pubblicarli. E moltissime cose le ho restaurate manualmente. Tutte le sedie di questa stanza, i mobili. Mi è sempre piaciuto molto il lavoro manuale. Queste sfere armillari, le ho fatte in base al manuale del Coronelli, che spiega come ha costruito i due grandi globi per Luigi XVI. Vivo qui dal 1964. Questo luogo apparteneva al marchese Innocenzo Patrizi, che mi offerse di venire ad abitare qui. Quando ci arrivai era ridotto a un pollaio. Era stato convertito dal fattore, tutto quanto il palazzo. Io e Enzo ci impegnammo a rimetterlo a posto, cosa che non fu facile. Tutte le porte erano state riutilizzate per ripiani per i polli, e le stanze erano diventate batterie, dal primo al terzo piano. Abitavo inizialmente nella casa di fronte, e alle due di notte si accendeva tutto, come se ci fosse un grande ballo, per far mangiare i polli come se fosse giorno. Persino per quel che riguarda la casa in cui abito, sono stato e sono ancora un restauratore».
Penso che forse questa formula sintetizza l’attitudine di questo personaggio straordinario. E lui immediatamente confonde le carte. «Sa, poi di fatto le passioni vanno e vengono. Quando ero molto giovane amavo alla follia la letteratura greca, in particolare la poesia. Quando sostenni l’esame con Gennaro Perrotta, che insegnava alla Sapienza, lui mi chiese di rimanere nel suo istituto. Ma già prima, al liceo, marinavo la scuola per andare a leggere le Dionisiache di Nonno di Panopoli alla Biblioteca Casanatense. Era diventata una fissazione... Poi mi sono occupato molto di sanscrito, delle pietre, di restauro. Uno dei miei maestri è stato Mario Praz. Abitavo sopra casa sua, a via Giulia, a Palazzo Ricci. Era un uomo straordinario, di un sapere che lascerebbe stupefatti anche oggi che possediamo i computer. Aveva una memoria incredibile e una stanza piena di schede, interamente dedicata all’archivio dei suoi appunti, perché aveva la forza d’animo di interrompere la letteratura, schedare e riprendere. Forza d’animo che io non ho mai avuto. Poi conobbi Tucci e da lì iniziai a frequentare il sanscrito. In Nepal andai a 25 anni e pubblicai le iscrizioni nepalesi in caratteri gupta nel 1956. Allora non era aperto e turistico, a Kathmandu esisteva un solo albergo. Ricordo che copiai queste iscrizioni con una carta che si inchiostrava in modo che venissero riportate. Il tibetano lo leggo se ho il testo sanscrito di partenza come riferimento, perché molto spesso si tratta di traduzioni quanto più pedisseque si possa immaginare, un po’ come quelle che si facevano nel Medioevo dei testi greci. Sono ricalchi meccanici delle parole. Ecco, il tibetano lo conosco meno, e me ne dispiaccio».