il Giornale, 1 agosto 2018
In Cina 37mila funzionari puniti per aver violato il codice di frugalità voluto da Xi
In principio furono il parrucchiere e il sarto gratis, privilegi non più accettabili: via. Poi è stata la volta delle sedi del partito, troppe, dispersive e dispendiose: chiuse a centinaia, con il divieto di aprirne di nuove. Infine la spending review in salsa cinese si è abbattuta sul Congresso nazionale: scordatevi le composizioni di fiori e le portate di gamberi e frutta fresca a pranzo, ha detto Xi Jinping ai suoi, l’allestimento dev’essere sobrio e per il cibo ci si farà bastare un buffet.
Quello della frugalità, in Cina, è un precetto da rispettare come fosse legge. Soprattutto da quando Xi ha assunto la guida del Partito comunista nel 2012 (e quella della nazione l’anno dopo), imponendo una stretta sullo stile di vita e di lavoro delle decine di migliaia di funzionari del partito e dipendenti pubblici. Nella prima metà di quest’anno, come appena confermato dall’Autorità nazionale anti-corruzione, in 37mila sono stati puniti per aver trasgredito alle regole. I «reati» più gravi? Scambiarsi regali, concedere bonus non autorizzati, abusare delle auto pubbliche.
Il proposito perseguito da Xi è duplice: da un lato arginare il fenomeno della corruzione – colpendo «sia le mosche che le tigri», cioè i quadri corrotti a ogni livello, come disse una volta – e dall’altro dare un’immagine di semplicità e di vicinanza alla gente. Essere il presidente del popolo è sempre stato uno dei suoi obiettivi: più volte Xi si è fatto fotografare mentre consumava pasti semplici in giro per il Paese e nel 2013, a sorpresa, si fermò a prendere un bun, il tipico panino al vapore ripieno, in un ristorante di Pechino famoso per i suoi prezzi bassi. I funzionari, dunque, devono prenderlo a modello e comportarsi altrettanto sobriamente. Per accertarsene nel 2012 Xi, da segretario generale del partito, stilò il «codice della frugalità»: 8 punti da far rispettare allo staff del partito e alle cariche pubbliche, invitati a vivere una vita austera e a rispettare le regole imposte sull’uso del denaro. Obiettivo: «ridurre pratiche lavorative indesiderate e mantenere un contatto diretto con le masse», oltre che rimuovere i funzionari sleali e i rivali politici. In aggiunta agli abusi di cui sopra, si vieta anche l’organizzazione di matrimoni e funerali troppo appariscenti. L’Autorità anti-corruzione pubblica periodicamente i dettagli del comportamento dei funzionari che hanno trasgredito il codice, dai dipendenti del partito a livello locale alle agenzie governative, fino alle società controllate dallo Stato. Secondo i dati diffusi dal governo, dal 2012 un milione e mezzo di persone sono state colte in fallo e punite. Senza pietà nemmeno per i personaggi più altolocati, come il vice capo della Commissione militare centrale, Xu Caihou, e figure di spicco del partito come Zhou Yongkang e Ling Jihua.
E la stretta sulla «frugalità» ha appena fatto cadere un’altra testa eccellente. Si tratta di Lu Wei, «lo zar di Internet», ex numero uno dell’Autorità cinese per il cyberspazio, l’ente che regola l’utilizzo (e la censura) del web nel Paese. Wei, che ha guidato il dipartimento dalla sua nascita nel 2014 fino al 2016, aveva anche incontrato più volte l’ad di Apple Tim Cook e il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg (che pochi giorni fa era riuscito ad aprire una controllata locale del social network a Hangzhou, a cui però Pechino ha revocato la licenza dopo un solo giorno di vita). Secondo quanto comunicato dalla Procura suprema del popolo, Wei è accusato di aver accettato «grosse somme di denaro e proprietà», di aver abusato della sua posizione e di aver utilizzato altri funzionari per ricavarne profitti. Prima del 2016 in molti lo davano come favorito per ruoli ancora più alti, ma poi è improvvisamente caduto in disgrazia. E pochi giorni prima della Conferenza mondiale su Internet del 2017, iniziativa da lui voluta, è stata annunciata l’indagine a suo carico.