La decisione della Corte federale segna un passo indietro rispetto alla delibera con cui a maggio il commissario straordinario della Figc, Roberto Fabbricini, aveva previsto il passaggio del calcio femminile dai dilettanti ai professionisti.
«È un netto stop a quello che era solo l’inizio di un processo di crescita del nostro movimento che, dopo la storica qualificazione ai mondiali di calcio in Francia del 2019, ha bisogno di incentivi».
Lei e le sue compagne di squadra cosa avete pensato una volta saputo che era stato accolto il ricorso della Lega nazionale dilettanti?
«C’è stata una delusione totale perché speravamo che il passaggio a professioniste avrebbe potuto essere un ulteriore passo per lo sviluppo del movimento femminile».
La Federcalcio, però, ha già annunciato ricorso...
«Spero che possa ribaltare la situazione. Noi calciatrici possiamo e dobbiamo farci sentire. Ma si sono mossi anche dirigenti e società. Ed è bene che i club siano in prima linea in questa battaglia. Il problema, però, non è solo culturale».
Cioè?
«Esiste una legge vecchia quanto me, che risale al 1981, in cui si stabilisce che lo sport professionistico a livello femminile non esiste. E questo vale per tutte le atlete, non solo per le calciatrici.
Bisogna che ci sia un’inversione.
Non serve andare lontano, magari negli Stati Uniti. Basta attraversare il confine e andare in Svizzera, Germania o Danimarca, per accorgersi che il calcio femminile è trattato al pari di quello maschile».
Cosa cambierebbe, in concreto, per le calciatrici se venissero considerate professioniste?
«Molte cose. Prima di tutto sotto il profilo contributivo. Senza dimenticare le coperture assicurative e diritti come la maternità. A differenza dei colleghi calciatori, a fine carriera, ci troviamo spesso senza contributi e senza nessun tipo di paracadute.
Per non parlare degli stipendi...».
Può spiegarci?
«Vivere di sport per le atlete è complicato. Il nostro stipendio può raggiungere al massimo i 23.800 euro all’anno spalmati su dieci mensilità. E tutto sotto forma di rimborso spese. Ma sono in poche a percepire queste somme. Capita più spesso, invece, che le calciatrici debbano fare un doppio lavoro o che siano costrette a lasciare perché non sono in grado di mantenersi».
Lei ha debuttato in serie B nel 1996, ha giocato in tante squadre tra cui Torino, Torres, Brescia e Verona. Quanto è stato difficile?
«Non tanto, mi ritengo fortunata. La determinazione mi ha aiutata.
All’inizio facevo la spola tra Bolgheri, in provincia di Livorno, dove abitavo, e le squadre toscane in cui ho militato. Mi dava un passaggio mia cugina, anche lei calciatrice. I miei genitori non erano convinti, poi hanno capito la mia passione e mi hanno sostenuta».
In questi anni, però, qualcosa deve pur essere cambiato...
«Ci sono stati molti passi avanti. Ma lo sviluppo è troppo lento. Le donne dovrebbero poter vivere di sport.
Dovrebbe essere la normalità».