Corriere della Sera, 31 luglio 2018
Glo 80 anni di Rod Laver: «Datemi la mia racchetta e batto Federer»
Con i Doherty Gates ancora chiusi al pubblico, i campi intonsi e il profumo dell’erba appena pettinata nell’aria, Wimbledon, di prima mattina, è un luogo magico. Seduta sotto un ombrellone porpora e verde (i colori dell’All England Club) per ripararsi dal caldo africano di Londra, una tartaruga centenaria manda lampi azzurri dagli occhi traslucidi. La stretta di mano è una tenaglia. Good morning, Mister Laver.
Nato a Rockhampton, nel Queensland australiano, quasi 80 anni fa (li compie il 9 agosto, sotto il segno del Leone, e questo spiega molte cose), terzo di quattro figli di un mandriano, Rodney George Laver detto Rod è, probabilmente, il più grande tennista di tutti i tempi. Undici titoli Major, 5 Coppe Davis ma soprattutto due Slam (‘62 e ‘69: l’anno prossimo ne ricorrerà il cinquantenario), quelli veri, cioé i quattro grandi tornei inanellati nello stesso anno solare, roba che nemmeno il maestro onnivoro Roger Federer è mai riuscito a digerire. Come ci si sente ad essere il migliore, Rocket? «Invecchio a vista d’occhio, sono superato dagli eventi ma felice di essere vivo e di poter assistere alla più straordinaria rivalità della storia dello sport, quella tra Federer e Nadal» risponde la tartaruga sotto una peluria biondiccia, figurina minuscola dentro una sedia che pare un transatlantico.
Ha le mani adunche per l’artrite, l’apparecchio acustico, il naso irrimediabilmente scorticato dall’impietoso sole australiano benché da anni risieda a Carlsbad, in California, nella villa sul mare in cui nel 2012 è rimasto vedovo dell’amata moglie Mary, madre di Rick, l’unico figlio della coppia. È sopravvissuto alle due ere geologiche del tennis – amatoriale e professionistico —, a un ictus, a un mancinismo ante litteram, alla sua stessa leggenda. Si è inventato la stagione perfetta, l’ultima su questo piano di un bipede dotato di racchetta, nell’era Open: «Eccome, se mi ricordo quel 1969. Lo spagnolo Gimeno in finale a Melbourne e poi tre connazionali di fila: Rosewall a Parigi, Newcombe a Wimbledon, Roche a New York. Mi chiedo se un tennista avrà mai più un anno così. Ne dubito».
Non c’è mai superbia, nelle parole di Laver. Durante il colloquio la polvere del tempo si alza qua e là, quando le suole dell’uomo che creò il serve and volley calpestano gli snodi decisivi di una disciplina che, dopo il suo passaggio, non è mai più stata la stessa. Ogni sport ha i suoi tesori. Il calcio Pelé. L’atletica Owens. Il pugilato Cassius Clay. Il ciclismo Merckx. Il basket Michael Jordan. Totem rimasti conficcati nei playground, pietre miliari con cui tutti – prima o poi – si devono rapportare. Senza Rocket e il suo polso sinistro forgiato dai maniscalchi dell’Olimpo non sarebbero esistite le volée sublimi di McEnroe, i razzi al servizio dei grandi battitori, il drive metallico di Jimmy Connors, l’aggressività nevrotica e mancina di Rafa Nadal, attuale numero uno del mondo. Rod sorride scrutando l’orizzonte di fragole e panna. «Vede, cara signorina, ai miei tempi era tutto diverso: racchette, campi, fisicità degli atleti, gioco, montepremi... Però le confesso che mi sono goduto ogni secondo. Alla fine della giornata, lo scopo era lo stesso: battere gli avversari per assicurarsi un trofeo. Nella mia carriera sono riuscito a vincere qualche torneino ma secondo me il miglior tennista della storia è Roger Federer. Il modo in cui gioca, oddio, mi dà i brividi. La sua concentrazione, l’approccio al match, quello stile inimitabile… A quasi 37 anni (li compie un giorno prima di me!) è incredibile il livello a cui sa ancora elevarsi».
Eppure, da queste parti, tutti si inchinano a Rod. Commentatori, grandi ex, coach, idoli pagani. Non ce n’è uno che passi oltre senza omaggiare Mister Laver, abbeverandosi per un istante al suo carisma. Gli anni buttati da amatore, che spreco signor mito: «Ma no, va bene così. Ho viaggiato in tournée con Rosewall, Hoad e Gonzales. Quando sono entrato nel tour, nel ‘68, ero un giocatore più completo». Quel serve and volley divino chi l’ha ereditato? «Nessuno. I campi erano pessimi, la palla rimbalzava da schifo. Se la colpisco al volo mi faccio un favore, mi sono detto. Avevo ragione». Tra il miglior Laver e il miglior Federer chi vincerebbe? «Date a Roger una racchetta di legno e vediamo cosa ne tira fuori...» (risata vezzosa, senza esagerare). L’Italia le manca? «Oh, Nicky Pietrangeli a Roma, tra dolce vita e partite al Foro Italico, era un padrone di casa fantastico: che spaghetti indimenticabili...». Il ricordo più bello in assoluto? «Wimbledon ‘62, la premiazione con Elisabetta II in guanti bianchi, colbacco e triplo filo di perle sul campo centrale. Qualche parola fugace, ma indimenticabile...». Se le ricorda, cinquantasei anni dopo? «Oh yes: mister Laver, molti complimenti».
Quella volta che la regina diede del lei alla leggenda sudata, in pedalini bianchi.