Corriere della Sera, 31 luglio 2018
La poetessa Isabella di Morra, uccisa dai fratelli
Un «inferno solitario e strano» è, detto con parole sue, il luogo in cui visse Isabella di Morra. Il destino di questa giovane poetessa di Favale, l’antica Valsinni, intenerì il cuore di Benedetto Croce al punto che quattro secoli dopo, nel novembre 1928, il senatore del Regno si inerpicò a dorso d’asino pur di andare a visitare quelle terre impervie e aspre di Basilicata. La storia di Isabella, figlia di Luisa Brancaccio e del barone Giovan Michele di Morra, è uno dei fatti di cronaca più efferati che si conoscano, culminato in un triplo omicidio. Una storia che ai contemporanei apparve talmente indicibile da indurli alla rimozione. Una storia di segregazione divenuta a futura memoria esempio mostruoso di sopruso dell’uomo sulla donna, o meglio dei fratelli, folli di gelosia, sulla sorella.
Reclusa nel castelloNata intorno al 1520 e cresciuta in reclusione nel castello coltivando buoni studi e scrivendo versi petrarcheschi, quattro canzoni e dieci sonetti, Isabella avrebbe sofferto la lontananza del padre, che nel 1528, raggiunto poi dal secondogenito Scipione, riparò alla corte francese di Francesco I, accusato di infedeltà dagli spagnoli: ma nonostante la «riabilitazione» avrebbe poi deciso di restarsene in esilio dov’era ben stipendiato.
Sullo sfondo politico di un Regno di Napoli invelenito dai rancori e dalle fazioni, rimangono a Favale Luisa Brancaccio e il maggiore Marcantonio con gli altri figli, Decio, Cesare, Fabio, Camillo e la più piccola Porzia. Oltre, naturalmente, a Isabella, che Scipione, istruito di greco e latino, prima di darsi all’esilio, aveva avviato alla poesia. Ne vennero fuori versi dolorosi in cui quella sorellina meridionale di Emily Dickinson lamentava la sua reclusione: «I fieri assalti di crudel Fortuna / scrivo piangendo e la mia verde etate». Il suo piccolo canzoniere esprime il desiderio di emancipazione con il sentimento «amaro, aspro e dolente» anche per una splendida femminilità buttata alle ortiche: «Qui non provo io di donna il proprio stato», «Son donna, e contra de le donne dico / che tu, Fortuna, avendo il nome nostro, / ogni ben nato cor hai per nemico».
La ricostruzione di Croce si avvale della «Familiae nobilissimae de Morra historia», grazie alla quale un discendente della famiglia di Isabella, Marco Antonio, nel 1629 portò alla luce l’incredibile vicenda. «Poco lungi da Favale, – avrebbe scritto Croce – nel castello di Bollita, si recava di frequente lo spagnuolo don Diego de Castro, che aveva ricevuto quel feudo come dote di sua moglie Antonia Caracciolo, la quale dimorava colà mentr’egli sosteneva il carico di regio castellano della rocca di Taranto». La tragedia si avvicina con l’entrata in scena del signorotto ispano-napoletano, rimatore a sua volta e membro della prestigiosa Accademia fiorentina, incline a festejar fanciulle di buona famiglia, come ricorda Tobia R. Toscano nell’edizione delle rime scritte dai due sciagurati.
La strage e la fuga L’ipotesi è che don Diego, residente nel feudo di Bollita, a breve distanza da Favale, non abbia esitato a incontrare la giovane Isabella, forse amica della moglie Antonia, e ad avviare con lei uno scambio di rime e una corrispondenza non solo letteraria servendosi del nome della Caracciolo e dei buoni uffici di un precettore. Insomma, lui aveva 36 anni, lei 25, quando i fratelli di Isabella decisero di lavare col sangue quello che considerarono un affronto insostenibile all’onore.
Sorpresa la sorella con un’epistola tra le mani, Cesare, Fabio e Decio, «ferinos ac barbaros», diedero in escandescenze. E fu una carneficina: tra la fine del 1545 e l’inizio del 1546 vennero uccisi a colpi di pugnale il pedagogo e la povera Isabella.
La strage fece scalpore e costrinse due degli assassini a fuggire provvisoriamente in Francia, senza però abbandonare l’ossessione della vendetta nei confronti del Castro. Il quale nel frattempo si era dato alla macchia. Invano. Nel settembre dello stesso anno, sorpreso nel bosco di Noia, dopo due o tre notti di appostamento degli aguzzini, don Diego fu massacrato da «tre arcabusate»: la prima e la seconda lo colpirono a un occhio, mentre l’ultima, sferrata alle spalle, si abbatté nel mezzo del collo fuoriuscendo dall’altra parte.
Maria Antonietta Grignani, cui si deve il commento alle poesie di Isabella, suggerisce che più che la questione amorosa abbia contato, nell’accanimento dei fratelli, il fatto che i Morra erano filofrancesi mentre il Castro era spagnolo e per di più parteggiava con forza per Carlo V. Dunque, l’assassinio per gelosia fu anche un delitto politico, in quanto la ragazza, entrando in contatto con don Diego, aveva «tradito» la causa dei familiari, ponendosi al di fuori della giurisdizione tirannica del casato.
Ricercati nella regione per ordine del viceré Pedro de Toledo, i tre energumeni si metteranno in salvo in Francia, protetti da Scipione, il fratello più amato da Isabella.