Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2018
Marchionne e il silenzio-assenso dei governi alla «italexit» di Fca
Chi è veramente Sergio Marchionne? Che cosa ha fatto prima con la Fiat e dopo con la Chrysler? Che legami ha costruito, nel corso degli anni, con la famiglia Agnelli? Che rapporti ha intessuto con la politica italiana?
In ogni vicenda industriale e finanziaria esistono una dimensione professionale e una componente umana. Le relazioni formali e i rapporti inseriti nella cosiddetta governance delle imprese moderne, le ambizioni private e le paure più intime, il non detto del cuore e le pulsioni dell’interiorità, prendono forma alla luce del sole e si creano nell’ombra delle anime, appaiono nei consigli di amministrazione e si sedimentano nelle solitudini individuali.
Sergio Marchionne. John Elkann. Lapo Elkann. Ginevra Elkann. Andrea Agnelli. Più tutti gli altri nomi e cognomi dei membri della famiglia di Torino che compongono una sequenza lunga, estesa e ramificata come un albero genealogico medievale. Il capitalismo finanziarizzato e globalizzato è una forma moderna di feudalesimo in cui, però, non è chiaro chi sia il sovrano e chi il vassallo, chi sia il valvassore e chi il valvassino. Le distinzioni del sangue e le gerarchie dell’impresa contano. Ogni rapporto personale e ogni relazione professionale vengono coperti e impastati con una strana sabbia, in cui i granelli della fiducia si uniscono a quelli della distanza, l’umidità dell’adesione del destino degli uni e dell’altro si miscela con la secchezza delle ambizioni e dei patrimoni dell’uno e degli altri.
Ogni cosa precipita nel tema razionale e scabroso – con la rifondazione di Fiat e la neofondazione di Chrysler – del mandato degli azionisti all’amministratore delegato. Razionale perché, nella meccanica di ogni società, sono gli azionisti a definire il mandato: che cosa fare, con quali tempi e con quali mezzi. Scabroso perché la centralità di Marchionne – in questo processo storico, con le sue compiutezze e le sue incompiutezze – è preponderante. Tutto questo si condensa e si emulsiona, si formalizza e si specifica, in una strategia e in un modello di governance del gruppo che si realizza nella dimensione multipla e polimorfa del capitalismo integrato e denazionalizzato, managerializzato e finanziarizzato.
Il contesto è rappresentato dal mandato degli azionisti di costruire una architettura giuridica e societaria in grado di tutelare i loro interessi e di rendere coerente l’intera impalcatura di diritto del gruppo con una fisiologia industriale e finanziaria internazionalizzata, in cui l’Italia è – nei numeri consolidati – poca cosa.
In quattro anni – fra il 2013 e il 2016 – le società della vecchia galassia Agnelli cambiano domicilio. E, nel cambiare domicilio, non soltanto ottengono benefici fiscali, ma conferiscono anche all’azionista di maggioranza significativi vantaggi che ne amplificano il controllo di proprietà, garantendo l’assoluto potere sulle operazioni straordinarie: vendita totale o spezzatino, fusioni o acquisizioni. Questo processo è complesso e articolato. Viene concepito nel 2012 e si realizza fra il 2013 e il 2016. I governi in carica in Italia in questi tre anni sono guidati da Mario Monti, da Enrico Letta e da Matteo Renzi. Un meccanismo di questo genere ha bisogno del favore politico. O, per lo meno, di una non dichiarata ostilità. Senza un rapporto cordiale con la politica, l’ingegnerizzazione – fiscale e di controllo – sarebbe complicata per una singola impresa e risulterebbe impraticabile per un gruppo di società.
Il contesto politico italiano è condizionato dai profondi e pervasivi effetti sociali della crisi economica iniziata nel 2008 e da una destrutturazione del campo politico: la destra ha un leader, Silvio Berlusconi, trattato sulla scena europea come un paria dissoluto e corrotto, mentre la sinistra vive,in quegli anni, lotte fratricide e violente al limite dell’autodissoluzione. L’intera traiettoria politica di questo periodo è segnata dalla necessità di evitare l’implosione del Paese e la sua trasformazione nella miccia per la detonazione della moneta unica e per la disgregazione dell’Unione europea.
In quei cinque anni, il rapporto di Fiat Chrysler con i governi è segnato da una cortesia istituzionale con Monti e Letta e da una esplicita vicinanza con Renzi. Gli apprezzamenti di Marchionne verso di lui e verso la sua ansia modernizzatrice sono frequenti e convinti. Il 13 marzo 2014, dopo i primi provvedimenti del governo Renzi, Marchionne dice: «Di sicuro è stato veramente qualcosa di nuovo, di dirompente, di cui il Paese ha bisogno. Ha il mio totale appoggio». Il 26 settembre 2014, a Auburn Hills, Renzi è ospite. Afferma Marchionne: «Ci accomuna il coraggio. Io ho assorbito molte critiche in Italia e me ne sono fregato. Renzi deve fare lo stesso. La cosa importante è andare avanti senza farsi intimidire. Bisogna fare quello che è giusto per il Paese».
A quel punto, è reso pubblico l’assorbimento totale del punto di vista di Marchionne da parte di Renzi, che giudica anacronistiche le polemiche sulla italianità perché Fca è una impresa globale che può creare ricchezza e occupazione anche nel nostro Paese: «Fiat-Chrysler mi piace, è straordinaria, eccitante ed esaltante. Come italiano sono orgoglioso che ci sia Fca, porterà expertise statunitense. Per me non è importante dove si trova il quartiere generale finanziario e delle attività. Per me la cosa importante è mantenere il Made in Italy. Non è importante se a Wall Street o ad Amsterdam. Quello che è assolutamente importante è l’aumento dei posti di lavoro in Italia».
Il quadro generale è quello della globalizzazione. Dice Renzi: «Da italiano sono orgoglioso che ci sia Fca. La globalizzazione è la maggiore opportunità che ha l’Italia». Il rapporto procede così per tutto il 2015. In qualche maniera nella comunicazione pubblica si costruisce un’adesione fra la traiettoria dell’Italia che cerca di uscire dalla recessione e la Fca che, mentre sotto il profilo societario e fiscale sceglie di lasciare l’Italia, prova a trovare la sua collocazione nel capitalismo globalizzato. Ciò ha il suo apice il 4 gennaio 2016, alla quotazione a Piazza Affari della Ferrari, quando Renzi dice: «Questa quotazione è un messaggio bellissimo per il Paese e una straordinaria occasione per gli investitori. L’Italia c’è e non deve avere paura del mondo. Il 2016 vorrei che fosse l’anno in cui smettiamo di recuperare i ritardi e cominciamo a correre più forte degli altri».
Dunque, con l’affettuosa e totale adesione della politica italiana di governo, la galassia Agnelli-Elkann è diventata una realtà giuridica internazionale e ha spostato l’attività e l’orizzonte degli interessi della famiglia Agnelli-Elkann e di Sergio Marchionne su un piano più alto rispetto alla «piccola» Italia. La quale, appunto – al di là dei singoli casi aziendali e delle molteplici ragioni strutturali – è sempre più piccola. Ormai è laggiù. Esiste. Non è abbandonata, come vorrebbero le regole belluine e matematiche del capitalismo globalizzato. Ma, negli equilibri, è sempre meno importante.