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 2018  luglio 31 Martedì calendario

Intervista a Fabiola Gianotti: «Risolvo i problemi della fisica mentre faccio la spesa»

È la prima volta in 60 anni di vita che il Cern di Ginevra è guidato da una donna, signora della fisica in odore di Nobel. Abbiamo incontrato Fabiola Gianotti a Spoleto dove ha ricevuto il Premio Carla Fendi istituito dall’omonima Fondazione. Un premio a tre: a Gianotti per il contributo alla fisica sperimentale delle particelle, e ai Nobel per la fisica 2013 Francois Englert e Peter Higgs. Tre nomi impressi nella storia. Il 4 luglio 2012 infatti Gianotti annunciò l’individuazione del Bosone di Higgs: era lei a guidare l’esperimento Atlas cui si deve la dimostrazione di ciò che Higgs aveva intuito nel 1964. 
L’anno dopo fu prescelta come direttrice generale del Cern dove si sarebbe insediata nel gennaio 2016. Fu un’esplosione di notorietà per questa donna elegante, riservata e sottile. L’anno dopo il Time la collocava in quinta posizione nella graduatoria delle persone dell’anno. È stata riconosciuta fra i Leading Global Thinkers. Secondo Forbes è tra le 100 donne più potenti del pianeta. Ma classifiche e visibilità internazionale non scalfiscono questa donna dedita alla ricerca. 
Da adolescente era in bilico fra musica e fisica. Come arrivò alla scelta definitiva?
«Ero una ragazzina molto curiosa, quindi molto attratta da discipline che potessero aiutare ad affrontare le domande fondamentali. Al liceo classico c’era un professore bravissimo che ci aveva entusiasmato. Poi fui molto colpita leggendo la biografia di Marie Curie. E comunque la fisica mi ha sempre interessato, magari all’inizio in maniera incosciente, non ero veramente sicura che questa fosse la mia strada, poi quando iniziai a studiare all’università le idee si chiarirono».
Cosa l’aveva catturata della vita di Marie Curie?
«In quella fase mi aveva colpito l’aspetto molto domestico della scienza. Il laboratorio era la sua casa, e viceversa. La scienza faceva parte della vita di tutti i giorni. Aveva la cucina e accanto il laboratorio. Trovai stupefacente che contribuire alla conoscenza dell’umanità appartenesse alla quotidianità».
Suona ancora il pianoforte?
«Purtroppo non tanto quanto vorrei, il tempo è molto limitato. Però cerco di tenermi allenata».
Quando mette le mani sulla tastiera è per suonare
«Scarlatti e Schubert. Ma sono tanti gli autori che amo». 
Lo studio della musica e della fisica che impatto hanno avuto sulla sua personalità? Cosa le hanno insegnato?
«Entrambe le stesse cose. Serietà, rigore ma allo stesso tempo creatività. Hanno instillato la curiosità di cercare sempre percorsi nuovi, ma anche l’umiltà e la modestia perché ti fanno comprendere che si può sempre fare meglio».
Cosa vuol dire per un fisico poter operare al Cern?
«È come se un bimbo si trovasse in un negozio di giocattoli. È il laboratorio più importante nel nostro campo, non c’è altro luogo dove desideri stare. È stato determinante per me riuscire ad andare al Cern con una borsa di studio per giovani post-doc quindi avere un posto permanente».
Che reazione ebbe alla notizia che era stata prescelta come direttore generale del Cern?
«Panico. Mi chiesi, ora cosa faccio? Poi si razionalizza. Ora sono lieta. È un lavoro fantastico, mai un giorno uguale all’altro». 
Quando scade il mandato?
«Fra due anni e mezzo».
Poi?
«Finalmente ritorno alla ricerca».
Amministra un budget annuale di un miliardo di franchi svizzeri. Una cifra estremamente impegnativa.
«È il budget di una grossa università europea, corrisponde più o meno a un cappuccino all’anno per ogni cittadino europeo. Con questi soldi bisogna provvedere a innovare strumenti, acceleratori, grandi rivelatori, sviluppare tecnologie nuove e fare ricerca fondamentale. L’Italia contribuisce per circa il 10% del budget con 120 milioni di franchi svizzeri, ma ha un ritorno di circa 45 milioni di franchi in termini di commesse industriali».
Riesce a dormire con questo carico di responsabilità?
«Sì. Ci sono un po’ di preoccupazioni e di difficoltà, come sempre nella vita. Ma è un lavoro di squadra: sia quando si è fisici sia quando si è in ruoli più dirigenziali. Al Cern si lavora assieme. Non è mai il lavoro di una sola persona».
Non le piace la parola dirigere?
«Al Cern siamo 17mila scienziati di 110 nazionalità. A prescindere dal ruolo gestionale e gerarchico, la forza del laboratorio sono le idee. Per dire: se l’idea buona viene dal più giovane degli scienziati, la si persegue». 
Lavorate tutti per lo stesso obiettivo, ma come in tutte le cose conta chi taglia il traguardo. Quanto è competitivo l’ambiente del Cern?
«La competizione c’è, ma è molto sana. Sappiamo che la nostra scienza necessita di grandissimi strumenti e infrastrutture. Quindi ci rendiamo conto che non può essere l’opera di uno o qualche scienziato. È la collaborazione di tutti che arriva al risultato. La competizione si diluisce nello scopo comune».
Come dimostra il Premio Fendi in condivisione (90mila euro da destinarsi alla didattica scientifica).
«Esatto».
Rita Levi Montalcini decise a tavolino che non si sarebbe mai sposata per amore della scienza. È anche il suo caso?
«Non sposarmi, non fare una famiglia non è stata assolutamente una scelta di partenza. È una questione di opportunità. Ho avuto molte opportunità nel campo professionale, e trovare la persona giusta nell’ambito più personale non è stata una cosa ovvia».
Ama ricordare di essere stata una figlia molto amata.
«Ho avuto genitori straordinari. Mi hanno dato un’educazione molto aperta e fatto conoscere tante cose diverse come la musica, il liceo classico, la fisica, lo sport. Un approccio naturale al giorno d’oggi, ma all’epoca, quando ero bambina, non era così comune. Mi hanno trasmesso una cultura molto vasta. Non da ultimo, mi hanno sempre insegnato il rispetto e il fatto che nella vita le cose vanno conquistate, e richiedono il massimo impegno».
Vivono a Milano?
«No, a Lugano».
Quindi è quella la vostra città di riferimento? 
«Sì, è a Lugano che passiamo il Natale».
Lei è rigorosa e meticolosa anche nella quotidianità o circoscrive tutto questo alla ricerca?
«Lo sono per natura e per formazione. Sia nella musica sia nella fisica ho avuto questo tipo di educazione. Rigore e precisione, ma anche pazienza, bisogna essere molto pazienti sia in entrambe le discipline. Sono attitudini importanti cui aggiungere creatività e apertura mentale, nel campo scientifico bisogna essere aperti a nuove teorie, a osservazioni che sfidano intuizioni e percezioni. Quindi sì, tutto questo ha impregnato anche la mia vita».
La fisica studia le leggi fondamentali della natura. Quanto ama la natura?
«Tanto. È un po’ un’eredità di mio padre che è geologo micropaleontologo. Ha sempre avvicinato me e mio fratello alla natura. Ricordo le passeggiate in montagna durante le quali ci fermavamo ad osservare i fiori, i coleottori, le piante».
Fabiola Gianotti e il rosso. La vediamo spesso di rosso vestita, da vero scorpione
«È il mio colore preferito. Anche perché essendo molto scura, bruna, se mi vestissi di nero sembrerei uscita da un funerale. Il rosso mi dà energia e vita».
Ha detto che la soluzione o l’idea giusta arriva quando uno meno se l’aspetta, anche standosene in coda per un pagamento. Le è accaduto? 
«Sì, è capitato. Molte volte l’idea giusta arriva quando si stacca la testa da quello che si sta facendo. Per questo è importante che un ricercatore mantenga anche una vita abbastanza ricca, con interessi diversi, coltivando gli affetti e le passioni. Perché avere la testa sempre focalizzata sull’obiettivo chiave a volte non è la strada migliore per arrivare al risultato. A me capita molto spesso che quando penso troppo a una cosa non trovi la soluzione e poi mi viene quando sto facendo tutt’altro, magari facendo la coda al supermercato».
Non riusciamo a immaginarla con un carrello della spesa.
«Invece vado quasi tutti i giorni al supermercato. Io ho vita normalissima».
Come vede l’Italia da Ginevra ?
«Premetto che essendo a capo di una istituzione internazionale non posso fare commenti sulla situazione politica, né italiana né di altri paesi. Dico solo che io avverto un grande attaccamento all’arte, alle tradizioni, alla cultura. L’Italia è unica. Da un punto di vista scientifico, e in particolare nello studio delle particelle, l’Italia eccelle a livello mondiale. Non è un caso che io sia italiana, che mi trovi nella posizione in cui sono. Non sono l’unica. Tanti italiani sono stati a capo di progetti e di esperimenti». 
Per dire che, aldilà delle classifiche mortificanti, la nostra scuola dimostra che addirittura ha dei settori in cui eccelle.
«Qui al Cern, l’Italia ha il contingente di scienziati più elevato: 2 mila studiosi. Questo dimostra il livello delle nostre università, soprattutto nel campo della fisica delle particelle. Attraverso industrie e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il nostro Paese ha dato un contributo fondamentale per l’acceleratore, e dunque la scoperta di questa particella».
Il bosone di Higgs cambierà la nostra vita?
«L’ha già fatto. Le nuove tecnologie che abbiamo dovuto sviluppare per trovare questa nuova particella, e più in generale le nostre ricerche scientifiche, trovano applicazione in un ampio numero di settori: dai pannelli solari, allo studio di reperti storici, da scanner per diagnostica in campo medico, all’utilizzo di acceleratori per bombardare e distruggere cellule cancerogene. Aggiungo che in questo campo l’Italia è all’avanguardia con il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica voluto da Ugo Amaldi, e sviluppato in collaborazione con il Cern».
Qual è l’età media dei vostri scienziati?
«Il picco è a 27 anni, e circa il 30% dei fisici sono studenti di dottorato. Però guardi che lavorare al Cern allunga la vita, abbiamo anche tanti ultra ottantenni, compreso un premio Nobel che a 95 anni continua a venire in bicicletta tutti i giorni, a 95 anni».
Chi non prosegue al Cern?
«Per la verità solo il 10% rimane al Cern, anche a causa del numero ristretto dei posti. Si calcola che circa il 50% vada nell’industria, dalla finanza all’ingegneria, e un altro 40% in altre istituzioni pubbliche. Una delle missioni fondamentali del Cern è proprio quella di preparare i giovani, di formarli aldilà della ricerca».
Qual è il rapporto ideale fra scienziato e società?
«Uno dei doveri dello scienziato è quello di comunicare alla società i progressi e la conoscenza. Ma al tempo stesso, è pure un dovere non cedere alla pressione dei media: un risultato va rilasciato solo quando è maturo». 
Se torna a quel 4 luglio 2012, cosa le viene in mente?
«Fu una giornata molto intensa ed emozionante. Era il momento in cui un lavoro ventennale condotto da scienziati da tutto il mondo culminava in una scoperta bellissima. Un punto di arrivo, ma anche di una nuova partenza». 
Perché sono sempre tante le domande aperte
«Oggi conosciamo solo il 5% dell’universo. Sappiamo che il 25% è costituito da materia che non conosciamo: la chiamiamo materia oscura. Domande che continueremo ad affrontare nei prossimi anni».