La Stampa, 30 luglio 2018
La piaga dei giovani isolati. In 100 mila fuori dal mondo
La porta della camera resta perennemente chiusa. E la luce accesa. Chi ha attraversato quel mondo, e ne è uscito, parla spesso di quell’uscio sbarrato come prima forma di rifiuto di un universo nel qual non ci si riconosce più. Li chiamano Hikikomori, e fino a che non ne incontri uno non sai bene cosa siano. Lo intuisci a malapena dai loro racconti sul web: «Non sopportavo più nessuno, il resto del mondo mi era estraneo».
Ma per entrarci davvero dentro quel mondo devi ascoltare la disperazione dei genitori: «Sapesse quanti tentativi abbiamo fatto per trascinare nostro figlio fuori da lì. Non c’era modo. Era chiuso verso tutto, e verso tutti».Eccolo qui il mondo degli Hikikomori.
La Rete come unico contatto
Non è fenomeno giovanissimo né per l’ Italia né, tantomeno, per il resto del mondo. Ciò che, oggi, però, preoccupa sempre di più sono le dimensioni di questa moderna forma di eremitismo volontario (descrizione ampiamente contestata da chi studia il fenomeno, ma che ben rende l’idea). In Italia sono oltre 100 mila i ragazzi dai 14 ai 25 anni, che non studiano, non lavorano, rifiutano ogni tipo di contatto con famiglia e amici, che vivono nel chiuso delle loro camera, spesso dormendo di giorno e mangiando la notte, quando nessuno li vede, che vivono sul web, che hanno nella Rete la loro unica forma di contatto con il mondo al di là delle pareti della loro camerette . In Giappone - dicono - sono almeno dieci volte tanto. E sono l’ultima frontiera dell’emergenza sociale. Trovare assonanze e similitudini con altri fenomeni sociali, di apatia o di rifiuto, è complicato.
L’urgenza di stare in disparte
C’è chi cerca assonanze con i «neet» - i ragazzi che non lavorano e non studiano, che stanno sospesi in uno spazio senza tempo e obiettivi - ma sbaglia perché essi, almeno, hanno una vita fatta di contatti e socialità. E non sono nemmeno eremiti, intesi nel senso classico del termine, cioè uomini e donne per cui l’isolamento fa rima con la meditazione. Gli Hikikomori (dal giapponese “stare in disparte”) sono altro. «Sono persone che hanno sperimentato su loro stessi cosa voglia dire la pressione sociale: non reggono quel mondo di aspettative che gli altri riversano su di loro. Edi conseguenza si isolano. «Rifiutano, in un percorso più o meno lento, i contatti con tutti: dalla famiglia, agli amici ai compagni di scuola» spiega bene Marco Crepaldi, l’uomo che, quando ha incontrato questo fenomeno, ha iniziato a studiarlo, fino a diventarne il massimo esperto in Italia. Studioso sì, ma anche qualcosa di più.
È nato grazie a lui il gruppo Facebook su questo tema. E sempre lui è il padre di Hikikomori Italia, l’associazione che ha poi filiato gruppi locali. Li frequentano i genitori degli Hikikomori. Si scambiano esperienze. Si confrontano e si aiutano. E si sostengono l’un l’altro perché essere un Hikikomori non è una malattia che puoi curare con una molecola scoperta e raffinata in un laboratorio. Uscirne richiede l’appoggio di tutti: genitori per primi. Una sola certezza: la psichiatria, e così pure la psicologia, non hanno protocolli certi per approcciare il fenomeno.
I ritmi di vita invertiti
Per capire i ragazzi in fuga da loro stessi e dal mondo può essere utile leggere una storia tratta dai forum di Hikikomori Italia:«Mi chiamo Aldo. Ho 21 anni. Oggi l’apatia è ciò che governa le mie giornate. Non c’è nulla che mi appassioni o mi spinga a far qualcosa. Spesso arrivo a stare sul letto e ad alzarmi solo per mangiare o andare in bagno. I miei ritmi di vita sono invertiti: sto sveglio la notte e dormo di giorno. Anche se razionalmente so di sbagliare, non riesco a fare altro, né riesco a volerlo. Qualche volta ho delle crisi, pensando ai sacrifici di mia madre, costretta ad assistere alla mia incapacità di fare qualcosa per il mio futuro. Ma sono crisi che nascono dalla consapevolezza di “stare bene” così, nonostante tutto. Sono sensi di colpa, ma non riescono a mettere in moto nessun ingranaggio per cambiare». Vincenzo Villari, docente alla facoltà di medicina dell’Università di Torino, e direttore del Servizio psichiatrico della Città della salute di Torino, non ha tentennamenti ad ammettere una mezza sconfitta: «Il fenomeno degli Hikikomori è l’esempio di come la psichiatria debba talvolta riconoscere i suoi limiti. Perché, ad oggi, non è chiaro se questo sia, o meno, un vero e proprio disturbo psichiatrico». Anche se, assicura «il confine tra la scelta individuale e il disturbo stesso a volte è molto labile». Come dire che gli ambiti si possono confondere. E dal punto di vista medico diventa molto complicato tracciare un quadro. Ci sono professionisti, ad esempio, che trovano assonanze con l’autismo. Altri con patologie differenti, quali la depressione.
Così si modellano i sintomi
L’unica certezza è ciò che sostiene il professor Villari: «I tratti individuali e socioculturali hanno funzione patoplastica sulle persone, cioè ne modellano carattere e modo di essere». In pratica, l’ambiente nel quale sei cresciuto ti ha condizionato. E le tue caratteristiche personali sono state in quale modo più - o meno - ricettive. Sintetizzare le peculiarità caratteriali di un Hikikomoro è complesso. Osserva Crepaldi: «Sono ragazzi e ragazze che hanno una sensibilità maggiore rispetto ai coetanei ma anche una fragilità interna, dovuta ad un eccesso di sensibilità nei confronti dell’esistenza». Le pressioni sociali, la necessità di avere successo, lo spirito competitivo esasperato li portano ad un «volontario isolamento dal resto del mondo». E allora vien da pensare che lo studioso del fenomeno e lo psichiatra abbiano idee più o meno convergenti. E si torna così alla funzione patoplastica: diventi un Hikikomoro se l’ambiente attorno a te è fertile. Cioè, se di tuo sei fatto in un certo modo. E ancora, illuminanti sono le parole del medico, quando cercando di ridurre all’osso la questione, per spiegarla al meglio anche a chi ne ha sentito parlare poco e male, dice: «Un Hikikomoro non diventerà mai uno scugnizzo, come uno scugnizzo non sarà mai Hikimoro». Possibile?
Il labirinto delle ipotesi
Daniele, 17 anni, in chat scrive così: «La mia infanzia non è stata piacevole, ho sempre sofferto al pensiero che la gente potesse giudicarmi e questo mi ha portato a diventare molto maturo fin da piccolo. E se ci penso, ciò mi fa stare molto male. Non riesco a ricordare un solo momento in cui sono stato veramente felice in tutta la mia vita». A chi gli domanda per quale ragione un ragazzo che ha scelto volontariamente di isolarsi dal mondo, abbandonando scuola, amici, attività sportive, si rifugi nella rete, Crepaldi offre l’unica riposta possibile nel labirinto di ipotesi che i trovano sul web: «Internet è una forma di contatto col mondo. Ci sei. Ma chi c’è dall’altra parte non pretende nulla da te». Insomma: non è come una madre che urla per convincere il figlio a tornare a scuola. Non è come un padre che minaccia. È un contatto e basta. «Sono come uno a cui è stata amputata una gamba. Penso che mi sia stata amputata la volontà. Non riesco a volere nulla, non so nemmeno come si faccia. Quando mi vengono dette frasi del tipo “Devi solo volerlo”,provo lo stesso fastidio che proverebbe uno su una sedia a rotelle a cui si chiede di alzarsi», scrive Luca, 22 anni, su un forum di Hikikomori Italia. Ma qui siamo già molto avanti. Ogni storia comincia con una scelta di fuga dalla realtà. Chiudendo la porta della camera e vivendo a modo proprio.
Le sedie rivolte verso il muro
«Se l’isolamento è volontario, se non esistono cause patogene, allora sì, siamo in quel mondo» sentenzia Villari. «Ma se non si aiutano i genitori, i ragazzi da soli non troveranno mai gli strumenti per uscire da una simile condizione» replica Crepaldi. E forse non troverebbero neppure motivazioni sufficientemente forti per farlo. Già, una molla per provare a cambiare.
In Giappone dove il fenomeno pervade tutti gli strati della società, di Hikikomori si parla diffusamente. E a Tokyo sono nati dei bar riservati a loro. Entri e trovi sedie e sgabelli rivolti verso il muro. Chi ci va non parla con nessuno. L’originalità di questi luoghi è la presenza di ragazze, un po’ svestite, ma non troppo. Carine sempre. Servono il tè. E poi si fermano a parlare con i ragazzi: un approccio sensuale, se si vuole, ma neanche troppo. Non sono prostitute. Anzi. Sono una chiave per tentare di tirare fuori dalle loro stanze quei ragazzi. Villari quei bar li ha visti. Professore, funzionano? «Sono tentativi che potrebbero anche dare frutti».