la Repubblica, 7 luglio 2018
Ritratto di Isaac Singer
Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento si aggiravano in Polonia alcuni grandi rivoluzionari della letteratura moderna: c’era Witkiewicz, che pubblicò nel 1926 Addio all’autunno e nel 1930 Insaziabilità, romanzi fratturati in cui la sessualità invadeva ogni cosa e il male dell’esistenza e della Storia erano onnipresenti; c’era Gombrowicz, che pubblicò nel 1933 Bacacay e nel 1937 Ferdydurke, libri che non somigliavano a niente e in cui una sessualità polimorfa smascherava la violenza delle idee astratte; e c’era Schulz, che era di famiglia ebraica e che, oltre a fare disegni alla Sacher-Masoch, pubblicò nel 1934 i racconti di un’infanzia favolosa di Le botteghe color cannella e scrisse un romanzo perduto intitolato Il Messia. In questa atmosfera visse un ragazzo ebreo che veniva da uno shtetl della Polonia orientale e da un padre rabbino chassidico: si chiamava Isaac Singer, ed era nato nel 1904. Allo studio del Talmud Singer mescolò prima dei vent’anni letture frenetiche e disordinate, dai Buddenbrock a Dostoevskij, Tolstoj, Krafft-Ebing, Nietzsche, Lombroso, Weininger, e poi gli amati Schopenahuer, Spinoza, Hamsun; lesse anche, dalla biblioteca di un’amante più vecchia di lui e aperta a ogni esperienza sessuale che Isaac incontrò a vent’anni, molti libri su spiritismo, magia e teosofia, ma lesse anche compendi di Kant, e di Lenin e Marx che detestò; e con passione lesse lo Zohar e ciò che poté sulla Qabbalah. Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta tradusse dal tedesco Il piacere di D’annunzio e La montagna magica, progettò di scrivere un libro sul suicidio dell’autore ebreo ma antiebreo di Sesso e carattere, visse con una compagna comunista con cui ebbe un figlio e diventò uno scrittore di lingua yiddish, la lingua-dialetto della sua infanzia nella quale inventò Satana a Goray, un romanzo che uscì a puntate nel 1933 e in libro nel 1935, un libro che non vide perché nel 1935 abbandonò moglie e figlio e fuggì in America. E ora il capolavoro di Isaac Bashevis Singer è stato ripubblicato da Adelphi, in una nuova e bella traduzione di Adriana dell’Orto. E di cosa parlano le 170 pagine di Satana a Goraj? Sottrarre al lettore l’effetto di lievitazione, come di un organismo vivo, del romanzo di Singer sarebbe un tradimento: ma si può accennare che il romanzo mette in scena l’atmosfera di sovversione di tutti i valori operata da Shabbatay Tzevi, un mistico studioso della Qabbalah che dette vita a un movimento eretico predicando l’arrivo del Messia nel 1666, l’anno in cui molti ebrei predicevano l’arrivo della Bestia 666 e dell’Apocalisse a cui sarebbe seguito il Regno di Dio, quel Shabbatay che finì per convertirsi all’Islam dicendo che il peccato più grande portava alla più grande redenzione. Ma in Satana a Goraj le idee sabbatiane si incarnano in personaggi: il buono e pio Reb Mates e il maligno e sabbatiano reb Gedalya, che invita seduttivo alla trasgressione sessuale per colmare il pozzo del male e affrettare così l’arrivo del Messia; una folla traboccante di vecchi in preda a smanie sessuali, di mogli che peccano di fronte ai mariti, di bambini che vogliono il Messia per avere dolciumi e divertimenti, di vergini prostituite, di sodomiti con animali, di necrofili e sadici, tutti intrisi di superstizioni religiose e desideri proibiti, circondati da folletti, dybbuk, spettri; e poi la grandiosa Rechele, che sposa fanciulla Reb Mates e convive con Reb Gedalya, diventa profetessa predicando l’eros scatenato e l’avvento del Messia, e al culmine del romanzo è sedotta e stuprata da Satana. Un romanzo che si apre con i centomila ebrei massacrati a metà del Seicento dai cosacchi che «scorticando vivi gli uomini, sgozzando i bambini, violentando le donne per poi squarciarne i ventri e cucirvi dentro gatti vivi» e si chiude sulla morte di Rechele e il ritorno a una normalità fatta di macerie interiori, con il solo Reb Gedalya che perdona Rechele e muore innamorato di lei. Satana a Goraj inchioda il lettore sotto un respiro ritmico che racconta per iperboli e accumuli, dove il dettaglio più minuscolo sorge per riaffondare e ingigantirsi nel fluire generale, in un martellare che fa scintillare vampe e buio in brevi frasi che si susseguono e si scontrano tra loro seguendo un perenne ascendere e discendere delle passioni. Singer sgretola la falsa verità che la trasgressione porti al paradiso in terra e che la violenza porti al bene, ma come Dostoevskij trascina il lettore a credere in quella menzogna in cui giace la verità degli ebrei avviliti e massacrati, e alla fine del romanzo, dopo la sconfitta del falso Messia, annuncia che il vero Messia verrà a porre fine al Male e alla Storia. Satana a Goray non è un romanzo epico perché l’epica è morta nel Medioevo, e Singer racconta con apparenza di cronachista un epos invasato che sabota frase per frase l’epos e la cronaca con la psichizzazione degli uomini e delle cose, creando uno stile unico ma imparentato con la modernità di Gombrowicz, Schulz e Witkiewicz: uno stile così unico che Singer stesso non lo ritroverà mai più. Ora però tocca ai fortunati che non hanno ancora letto Satana a Goraj sprofondare nel prodigioso ribollire di eros e Qabbalah, ribellione e nevrosi, violenza e tenerezza, misticismo e Storia, miserie e grandezze di un romanzo che è un pozzo senza fondo. Se potete, leggetelo di notte: sarà una notte spaventosa, ma illuminata dalla febbre della vita.