la Repubblica, 7 luglio 2018
Intervista con la Strega
I parenti polacchi sterminati dai nazisti. I genitori emigrati in Germania. L’arrivo in Italia. La vincitrice del premio, Helena Janeczek racconta di sé, del suo impegno politico: “Ma non ho il coraggio di Gerda Taro” Intervista di Helena Janeczek dice di essere diversa da Gerda Taro, di non avere il suo coraggio, di essere stata per molto tempo poco sicura di sé. Sarà anche vero, ma Gerda, la fotografa di guerra amante di Robert Capa e protagonista del libro vincitore del premio Strega, La ragazza con la Leica (Guanda), ha tante cose in comune con Helena. Le unisce, a tanti anni di distanza, uno sguardo libero sul mondo, la stessa anima cosmopolita. Janeczek, come Gerda, è un mix di eleganza originale e determinazione. Le ciocche verdi dei capelli, i pantaloni fiorati e uno sguardo politico sulla realtà,che in altri tempi si sarebbe chiamato “impegno”. Lo stesso luogo scelto per l’appuntamento non sembra casuale. Chiede di incontrarci nella storica sede femminista della Casa delle Donne, Roma, zona Trastevere, che ha da poco subito uno sfratto. Si shermisce: «È incidentale, alloggiavo qui vicino», dice. Ma poi aggiunge: «Però mi fa piacere vederci in questo posto». Silenzia il telefonino che suona in continuazione. Dopo l’intervista un treno la riporterà a Gallarate, dove vive. Gerda, come lei, era una donna transnazionale. Entrambe siete di origini ebreo-polacche. L’ha attratta questa comune complessità? «Ho vissuto in Germania la prima parte della mia vita, ma avvertivo il peso di stare in quel paese. Non ho mai sentito una vera appartenenza. I miei genitori erano ebreo-polacchi, arrivati in Baviera dopo il pogrom di Kielce, nel 1946, finendo in un campo profughi. Avrebbero voluto emigrare negli Stati Uniti, ma non ci riuscirono perché a mio padre fu diagnosticato un piccolo focolaio di tubercolosi. Quella che lei chiama transnazionalità, potrebbe essere definita pluri-appartenenza». Le ha pesato o pensa sia stata un arricchimento? «All’inizio mi pesava, non mi sentivo una persona normale. Poi crescendo mi sono riconciliata. La realtà è su scala più vasta dei confini di una nazione, include più di una cultura. In Italia sono per tutti Elena. Il mio nome è pronunciato senza la “h” aspirata iniziale e senza l’accento sulla seconda “e”». Le dà fastidio? «No, tutt’altro. Modellare i propri nomi sulle culture che li accolgono è anche il segno di un’identità più fluida. Oggi chiunque può contare nella sua storia familiare più appartenenze. Le compagnie di persone che di sera si aggirano per le strade di Gallarate, dove vivo da quando sono arrivata in Italia, sono miste. La giovani generazioni, gli amici di mio figlio, sono cresciuti con l’Erasmus. Non abbiamo mai avuto tanti giovani che parlino decentemente così tante lingue». Lei è nata 54 anni fa a Monaco di Baviera. Parla italiano, tedesco, francese e inglese. Cosa pensa dei nuovi nazionalismi in politica? «Nel romanzo a un certo punto scrivo che “la fame e la disperazione lavorano per i nazisti”. Oggi scontiamo una miopia politica europea. Siamo stati incapaci di trovare risposte a un’idea di sinistra in linea con una società socialdemocratica». Deriva da questo la crescente paura dell’altro? «Da una mancanza di speranza, dal crollo di un orizzonte di fiducia. Siamo un paese sempre più vecchio, con persone che hanno paura per il futuro dei loro figli. Ma l’Italia è una società accogliente, ha conosciuto invasioni e fioriture di civiltà. Per questo l’ho scelta». Quando è arrivata? «Dopo la maturità. Un amore trasmessomi dai miei genitori. Mia madre aveva a Monaco un negozio di calzature italiane. Ma devo molto alle mie due famiglie adottive, due coppie di amici dei miei genitori che vivevano tra Gallarate e San Macario. Uno di questi signori, Pompeo Mancarella, era un professore di italiano e latino. Fin da quando ero ragazzina mi regalava libri. Mi ha fatto conoscere Gadda, Montale, Meneghello. Era di origini umili, emigrato dalla provincia di Lecce nel nord-ovest. I miei parenti, a parte due cugini andati a vivere in America, erano stati tutti sterminati dalla Shoah. Questi amici italiani sono diventati la mia famiglia». A questo punto la scrittrice tocca un ciondolo che ha al collo. Lo apre. Dentro c’è una piccolissima fotografia del padre. «Durante lo Strega è stato il mio talismano. È morto quando avevo vent’anni. Era un medico ma dopo il trasferimento in Germania non ha più esercitato la professione. Si ritrovò ad aiutare mia madre nella gestione del negozio. Anche per lui il rapporto con la Germania non era facile. Lo viveva come il paese degli assassini». Portare scritta nella propria storia familiare tanta sofferenza rende più timorosi? La impensierisce il nuovo linguaggio xenofobo che va prendendo piede? «Non eccessivamente. Più dell’etnia può la cultura. Credo che i valori occidentali, la libertà, l’idea di realizzazione individuale riescano a vincere». Amore per la libertà e ambizione personale erano due caratteristiche di Gerda Taro. Si può combattere per gli altri pensando a sé stessi? «La realizzazione di sé può andare di pari passo con gli ideali politici. Uno dei titoli che avevo in mente per il libro era “Tana libera me, libera tutti” ( sorride)». Con i dodici finalisti Strega, ha firmato una lettera per chiedere al governo di riaprire i porti dopo il caso Aquarius. Crede che gli intellettuali incidano ancora sulla realtà? «Non so, abbiamo comunque un po’ di visibilità in più rispetto a una persona qualsiasi. È vero che bisogna sapersi spendere come scrittori, ma bisogna farlo prima di tutto come persone, cittadini». Non le sembra che gli scrittori facciano poco? Che per i tempi che viviamo siano fin troppo silenziosi? «Non saprei. Io nel mio piccolo faccio quello che posso. Forse non da intellettuale, ma da persona che reagisce, che ci prova». Pesa l’attuale diffidenza verso gli intellettuali? «Non mi sembra il maggiore dei problemi. Non mi importa se mi definiscono una radical chic. Sono più interessata al futuro di mio figlio, della sua generazione. Vorrei che per loro continuasse ad esistere un’Europa unita». Lo Strega è snervante. È riuscita a divertirsi un po’? «Per scrivere questo romanzo ho impiegato più di sei anni. Sono stati anni molto difficili. Mia madre si era ammalata di Alzheimer e dovevo assisterla. In quella lunga fase sono esistiti solo il computer, mio figlio e mia madre. A confronto lo Strega, per quanto faticoso, mi è sembrato una cosa bella. Sapevo di aver avuto una grande opportunità e volevo godermi il vento». Dopo lo Strega per Janeczek gli impegni non finiscono. Ora dovrà dedicarsi al Campiello, visto che La ragazza con la Leica, già vincitore del Bagutta, potrebbe anche lì giocarsi il podio.