La Stampa, 6 luglio 2018
James Conlon: «La mia missione: stendere le braccia verso tutti»
Un americano a Torino, sempre più contento di «avere un piede nel mio Paese e uno in Italia», e del resto bisnipote di un emigrato che da Calvello in provincia di Potenza sbarcò a Ellis Island. James Conlon, direttore principale della Sinfonica nazionale della Rai, da qualche mese è Commendatore della Repubblica: «Un onore. Qualsiasi cosa facessi, non riuscirei a ripagare quello che l’Italia ha fatto per me».
Felicemente stakanovista («Non c’è giorno senza musica, è una passione che mi ha fulminato a 11 anni come Saulo a Damasco, quando il miei mi portarono a vedere la Traviata»), Conlon prepara con la sua orchestra due grandi concerti per l’estate, domani per il Ravenna Festival e domenica nella città che da tre anni è diventata casa sua.
Per «Torino Estate Reale» suonerete in un contesto particolarmente affascinante, la Piazzetta Reale. Che effetto le fa?
«Bellissimo, anche se so che molti miei colleghi non apprezzano dirigere all’aperto. E invece gli eventuali problemi acustici sono compensati dall’atmosfera. L’estate dà all’orchestra la possibilità di uscire dal solito spazio e soprattutto di incontrare un pubblico nuovo. E quella è la mia missione principale: stendere le braccia a tutti, dai ragazzini agli spettatori di età avanzata».
Comincerete con Rossini.
«Completando un’operazione che, per il centocinquantesimo, ci ha visti molto concentrati. Domenica eseguiremo le sinfonie del Barbiere di Siviglia, di Semiramide e di Guillaume Tell. Nella seconda parte, un titolo universale: la Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Antonin Dvorak».
Che torna anche nel concerto di Ravenna, più concentrato sul Novecento. L’ouverture da «Candide» di Bernstein, che per un newyorkese come lei deve assumere un significato particolare…
«Ma lo sa che l’opera intera non l’avevo mai fatta? Finalmente mi è capitato, e da allora anche l’ouverture ha assunto tutto un altro sapore. Poi Benjamin Britten, un autore di cui mi sono imbevuto per anni, e di cui recentemente ho diretto Billy Budd all’Opera di Roma. Questa “Sinfonia da Requiem” è una prefigurazione del “War Requiem”, un lamento pacifista per le vittime della guerra. E prima, senza pause, faremo il Cantus di Arvo Pärt che alla memoria di Britten è dedicato».
La musica sacra è uno dei motivi centrali della prossima stagione dell’Orchestra della Rai, con un «Requiem» di Verdi e una «Creazione» di Haydn diretti da lei…
«…più una Messa dell’Incoronazione di Mozart che dirigerà Omer Meir Wellber»
Che cosa la lega a questa forma particolare di espressione?
«La considero tanto importante quanto la musica sinfonica, e credo che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di ogni orchestra. E poi è una parte della mia vita, perché ho diretto il più antico festival americano di musica corale».
Quali sono gli altri temi forti degli otto programmi che dirigerà quest’anno all’Auditorium Toscanini?
«Inauguriamo con il Titano, parte di un’integrale delle sinfonie di Mahler che intendo completare con l’orchestra, e con la K338, perché di Mozart non ce n’è mai abbastanza. Ci sarà Wagner, anche quello un impegno che portiamo avanti per la terza stagione. Molta musica italiana del Novecento. E il progetto sui compositori perseguitati dal nazismo che mi sta a cuore da tempo, ma che a Torino non avevo ancora sviluppato».
Che cosa consiglia, in particolare, su questo tema?
«La Sirenetta di Alexander von Zemlinsky, un poema sinfonico che affascina chiunque lo senta. L’autore era un contemporaneo di Schönberg, poi rifugiato a New York, e il pezzo fu scritto dopo la fine del suo amore per Alma Mahler».
Non vive con qualche inquietudine il passaggio politico dell’Italia, con i vertici Rai da rifare?
«Ma il momento è drammatico dovunque, pensi a quello che succede nel mio Paese. A noi non resta che lavorare tanto e bene, perché niente come la musica dà conforto nei tempi difficili. E io, con i miei, qui a Torino mi trovo benissimo, l’orchestra è in crescita e i professionisti d’esperienza si armonizzano con i nuovi arrivati, giovani pieni di talento».