il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2018
Il pallone, il caso e l’arte di Archimede
Il teorico Osvaldo Soriano, che scrisse una raccolta di racconti intitolata Fútbol. Storie di calcio (Einaudi, 1998), parafrasò una volta Pascal dicendo che “il calcio ha ragioni misteriose, che la ragione non conosce”. Il pratico Lionel Messi, che ha vinto per 5 volte il Pallone d’Oro negli ultimi dieci anni, ha detto a sua volta che “il calcio è come l’orologeria, in cui il talento e l’eleganza non significano nulla, senza il rigore e la precisione”.
La matematica può fornire un assist a entrambi gli argentini, rendendo meno misteriose le ragioni del calcio, che la ragione conosce benissimo, e confermando la presenza sul campo anche del rigore matematico e della precisione scientifica. A partire da quel bistrattato oggetto che è il pallone, che in ogni partita i 22 calciatori prendono insistentemente a calci per 90 minuti, senza mai fermarsi a guardarlo un attimo da vicino per capirne e carpirne i segreti.
Il pallone non è sempre stato lo stesso che conosciamo oggi. I maya, gli aztechi e gli altri popoli centroamericani precolombiani giocarono alla palla per migliaia di anni, nelle centinaia di campi che si possono ancor oggi ammirare in vari siti archeologici, con una palla solida di gomma, di dimensioni analoghe a quelle regolamentari odierne, ma del peso di 3 o 4 chili, circa 10 volte più pesante delle nostre.
La presenza dell’albero della gomma rendeva facile costruire palloni nel Nuovo mondo, ma nel Vecchio mondo bisognava ingegnarsi in qualche altro modo. Il più semplice era costruire un involucro quasi sferico costituito di pezze cucite, che si poteva poi riempire di stoffa o di foglie. Ma il problema era definire il pallone regolamentare: la geometria euclidea insegna, infatti, che ci sono solo 5 modi per approssimare la sfera mediante pezze tutte uguali, aventi ciascuna i lati e gli angoli tutti uguali.
Nel Fedone Platone racconta che i greci giocavano con palloni dodecaedrici: costruiti, cioè, con un involucro ottenuto cucendo insieme 12 pezze pentagonali regolari di cuoio. Ma le facce del dodecaedro formano angoli solidi abbastanza acuti, e una palla dodecaedrica ha almeno due svantaggi: rotola malamente sul terreno, e fa male se la si calcia a piedi nudi.
Per arrivare al pallone da calcio ci volle un colpo di testa di un genio come Archimede. Egli osservò, anzitutto, che sarebbe stato già meglio un pallone icosaedrico, ottenuto cucendo insieme 20 pezze triangolari regolari, perché gli angoli solidi formati dalle facce sarebbero stati meno acuti. Ma ancor meglio sarebbe stato smussare questi angoli, tagliandoli: facendolo in maniera accurata, i 12 angoli dell’icosaedro vengono sostituiti da pezze pentagonali regolari, e le 20 facce dell’icosaedro da pezze esagonali regolari.
Osservando un pallone da calcio classico, si vedono appunto le 12 pezze nere pentagonali, e le venti pezze bianche esagonali, cucite assieme. Il solido così ottenuto non ha tutte le facce regolari di un solo tipo, come piaceva a Platone, ma ha tutte le facce regolari di due soli tipi, e soddisfaceva Archimede. Ha 60 vertici, e in natura esistono molecole costituite da 60 atomi di carbonio, disposti appunto nei vertici del pallone da calcio: furono scoperte nel 1991 da Harold Kroto, Robert Curl e Richard Smalley, che vinsero per questo il premio Nobel per la Chimica nel 1996.
Una volta trovato il pallone da calcio, bisogna inventare le regole del gioco. Molte di esse sono ovviamente convenzionali, ma almeno una usa una terminologia matematica: il calcio d’angolo, chiamato semplicemente “angolo” (corner) in inglese, che viene appunto tirato da uno dei 4 angoli del campo rettangolare da gioco, quando la palla è uscita da uno dei lati corti senza essere entrata in porta. L’area in cui bisogna porre il pallone è un quarto di cerchio di raggio pari a un metro, e per un teorema di Archimede misura esattamente un quarto di “pi greco”: cioè, circa 0,785 metri quadri.
A proposito di angoli, una tecnica di gioco è la triangolazione, che individua appunto un triangolo formato da 3 vertici: nel primo sta un giocatore che passa la palla, nel secondo un giocatore che la riceve, e nel terzo il primo giocatore a cui essa ritorna. Nel calcio la si usa per aggirare un ostacolo, che nella fattispecie è un giocatore avversario, ma in geodesia e in topografia è comunemente usata allo stesso scopo per le rilevazioni geografiche e cartografiche.
Più astrattamente, ogni volta che un giocatore passa la palla a un altro crea un collegamento con lui, e si può costruire un grafo orientato pesato che misura il cosiddetto gioco di squadra: i vertici sono i giocatori, i collegamenti indicano i passaggi avvenuti nei due sensi, e i pesi il numero dei passaggi. Grafi di questo genere permettono di valutare la coesione di una squadra: gli avversari, ad esempio, possono usarli per rendere scientifica l’individuazione intuitiva delle connessioni deboli della squadra contro cui devono giocare, in modo da poterne spezzare l’unità nel modo più efficiente.
Queste tecniche sono ormai regolarmente usate nel calcio, e non solo per quantificare i passaggi effettuati. Si possono classificare i giocatori mediante vari parametri, dai falli compiuti ai rigori segnati, in modo da individuare esattamente come, dai comportamenti individuali dei vari giocatori, emerga il comportamento collettivo della squadra. Esiste ormai un intero settore che si dedica allo studio dei big data nel campo del calcio, divulgato da David Sumpter nel recente libro La matematica del gol (Codice, 2017).
Ovviamente, il problema fondamentale di qualunque gioco è individuare il vincitore. Nel caso del calcio, le regole determinano facilmente chi vince una partita fra due squadre: quella che segna più gol. Il problema è determinare chi vince quando le squadre sono più di due, e ci sono due soluzioni comunemente adottate: il torneo a squadre, come nei campionati nazionali, in cui ciascuna squadra gioca contro ciascun’altra, e il torneo a eliminazione, come nei campionati mondiali, in cui le squadre vengono gradualmente eliminate, fino ad arrivare ai quarti di finale, alle semifinali e alla finale.
Purtroppo, entrambi i metodi hanno i loro problemi, scoperti alla fine del Settecento dal cavaliere di Borda e dal marchese di Condorcet. Precisamente, nel torneo a squadre il vincitore dipende da come si assegnano i punteggi a chi vince, chi pareggia e chi perde. Nel torneo a eliminazione, invece, il vincitore dipende da come si assegnano gli accoppiamenti per le successive eliminazioni: ad esempio, quando ci sono tre squadre e la prima vince contro la seconda, la seconda contro la terza e la terza contro la prima, qualunque delle tre squadre vince il torneo a eliminazione in cui prima giocano le altre due, e poi la vincitrice contro di essa.
I campionati non determinano dunque la squadra migliore, perché la vincitrice dipende non solo dalla sua bravura, ma anche dalle regole del gioco. Purtroppo, la stessa cosa vale per le elezioni, e infatti Borda e Condorcet si preoccupavano di quelle, più che del calcio o della pallacorda. Quando ci appassioniamo ai campionati o alle elezioni, ricordiamoci dunque che non dobbiamo prendere gli uni o le altre troppo seriamente, perché in fondo non riflettono altro che le regole arbitrarie che qualcuno ha stabilito in precedenza.