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 2018  luglio 06 Venerdì calendario

Gal, l’israeliana che porta aiuti (di nascosto) alle famiglie siriane

C’è stata la notte in cui ha rivelato chi fosse e da dove venisse, nessuno lo sapeva. E le tante notti in cui tutti sapevano che cosa facesse e nessuno le chiedeva chi fosse. Perché Gal Lusky portava cibo, medicine, coperte da un Paese che è ancora nemico, attraversava un confine che è ancora di guerra. Di nascosto: ai siriani che soccorreva e soccorre, agli israeliani che l’avrebbero arrestata. Gli ufficiali di Tsahal sono stati informati solo nel 2016 e sabato hanno chiesto ancora una volta aiuto a lei e agli altri volontari: usare gli stessi percorsi, gli stessi contatti, affidarsi alle stesse mani strette in questi anni per distribuire centinaia di tende, taniche d’acqua, latte in polvere, olio ai quasi 20 mila rifugiati che si stanno ammassando dall’altra parte delle postazioni militari.
Famiglie scappate dai bombardamenti che martellano la città di Deraa e le campagne attorno: il regime di Damasco sostenuto dai russi vuole riprendere il controllo del sud, della piana che scende verso Israele e la Giordania. La maggior parte – le Nazioni Unite calcolano almeno 270 mila profughi in meno di una settimana – ha raggiunto i valichi (ormai sprangati) con il regno hashemita. Gli altri cercano riparo dove sono convinti che le truppe lealiste non oseranno avvicinarsi. Loro lo sperano, i generali israeliani lo impongono: la zona smilitarizzata – rimasta tale dalla fine del conflitto nel 1973 – è considerata un limite invalicabile, i carrarmati ammassati sul Golan da domenica scorsa servono a concretizzare le minacce del premier Benjamin Netanyahu: «Difenderemo la frontiera con ogni mezzo». La strategia del governo resta la stessa decisa nel marzo del 2011 con le prime manifestazioni pacifiche, proprio per le strade di Deraa, contro il dittatore Bashar Assad: evitare il coinvolgimento in quella che da allora è diventata una guerra civile.
Gal ha deciso di essere coinvolta da subito perché la sua organizzazione Israeli Flying Aid è specializzata nelle missioni in nazioni che non hanno rapporti diplomatici con Israele – è intervenuta anche in Paesi come il Sudan, Pakistan – e perché come recita il mandato: «Da ebrei non possiamo restare a guardare mentre viene commesso un genocidio. Da cittadini di uno Stato fondato all’indomani dell’Olocausto aspiriamo a essere la voce di chi non ha voce».
Ha cominciato a muoversi in una situazione che diventava caotica tra brigate fondamentaliste e spie del regime: «Abbiamo mandato in missione solo persone che parlassero l’arabo come madre lingua, non potevamo rischiare che degli israeliani fossero arrestati o rapiti in Siria. Sarebbe stato irresponsabile anche nei confronti del nostro Paese, avremmo costretto il governo a una trattativa per provare a liberarci».
Ha svelato la sua identità solo dopo tre anni e mezzo, quando il convoglio sui cui viaggiava è finito sotto attacco: «Se fossimo stati colpiti, feriti, portati via, i siriani che lavorano con me sarebbero anche stati accusati di tradimento. Avevano il diritto di sapere quale altro rischio correvano oltre a quelli che condividevamo».
Durante un incontro in un albergo fuori dalla Siria ha detto ai suoi contatti di essere israeliana, un comandante dei ribelli si è alzato e se n’è andato: «Dopo Assad, la faremo finita con te». Gli altri hanno scelto di accettare questo abbraccio inaspettato.