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 2018  luglio 06 Venerdì calendario

È partita ufficialmente la guerra dei dazi tra Usa e Cina

Da oggi si fa sul serio: alla mezzanotte di New York (mezzogiorno a Pechino, 6 del mattino a Roma) sono entrati in vigore i dazi Usa su 818 prodotti importati dalla Cina, che valgono 34 miliardi dollari (salvo clamorose svolte successive alla chiusura in redazione di questo giornale). Il presidente degli Stati Uniti li aveva annunciati il 15 giugno.
A questa salva di tariffe, che aumentano di 25 punti percentuali il prelievo in dogana, tra l’altro, su robot industriali e auto elettriche, Pechino aveva promesso una risposta immediata, con balzelli su 34 miliardi di dollari di importazioni dagli Stati Uniti, concentrati sull’agroalimentare. Occhio per occhio e dalla retorica si passa ai fatti: la spirale delle ritorsioni, avviata a gennaio dai primi dazi Usa su pannelli solari cinesi e lavatrici coreane, si gonfia e minaccia di ingurgitare le fondamenta del sistema multilaterale. Quell’insieme di regole che proprio gli Stati Uniti hanno costruito e promosso nel secondo dopoguerra. Un mostro bulimico che potrebbe presto investire anche il fronte atlantico (già scosso dai dazi su acciaio e motociclette), se Washington e Bruxelles non riusciranno a evitare lo scontro sulle auto – proprio ieri, la Ue ha approvato le misure di salvaguardia per tutelare la propria siderurgia dagli effetti distorsivi delle tariffe Usa.
I mercati finanziari subiscono il colpo. Ieri la Banca centrale cinese è intervenuta per sostenere lo yuan, che nei giorni scorsi ha toccato il minimo storico nei confronti del dollaro. La Borsa di Shanghai ha chiuso in prossimità dei minimi da marzo 2016, portando al 12% la flessione nell’ultimo mese.
Nelle prossime settimane, come ha già annunciato la Casa Bianca, entreranno in vigore dazi su altri 16 miliardi di import made in China. Pechino risponderà in maniera simmetrica. A quel punto, il valore dell’interscambio colpito sarà già pari a 100 miliardi di dollari. Alle ritorsioni cinesi, il presidente Usa Donald Trump ha promesso di reagire con restrizioni su un totale di 450 miliardi di dollari di import, il 90% di tutte le merci acquistate dal rivale nel 2017. La legge del taglione esigerà da Pechino risposte adeguate, anche se la Cina importa dagli Usa “solo” 130 miliardi di dollari di merci.
Ieri, il ministero del Commercio cinese ha ribadito che i balzelli americani finiranno per colpire le multinazionali, comprese quelle americane: «I dazi Usa – ha dichiarato il portavoce Gao Feng – sostanzialmente attaccano le catene globali delle forniture e del valore. Per dirla in modo semplice, gli Stati Uniti stanno aprendo il fuoco su tutto il mondo, anche su se stessi». Un refrain già sentito fino alla noia, condito da retorica poco credibile e concluso dal consueto avvertimento: «La Cina non si piega di fronte a minacce e ricatti e la sua determinazione a difendere il libero mercato e il multilateralismo non vacillerà».
L’obiettivo della Casa Bianca è minare la rincorsa cinese al primato tecnologico americano: i settori colpiti dai dazi sono soprattutto quelli in cui Pechino vuole raggiungere la supremazia entro il 2025. Le barriere commerciali vanno di pari passo con i paletti agli investimenti cinesi negli Stati Uniti. Il Congresso sta per potenziare i poteri di controllo e interdizione dell’agenzia (Cfius) che vigila sulle acquisizioni estere in settori e infrastrutture critiche per il Paese. E il 3 luglio la Casa Bianca ha chiuso fuori dal mercato l’operatore di telefonia China Mobile. Pechino ha subito risposto preparandosi a vietare al produttore di semiconduttori Micron Technology di vendere i suoi articoli in Cina. Martedì, le azioni del gruppo con base nell’Idaho hanno perso il 5%. Spavaldo il ministero del Commercio cinese: «Nulla potrà arrestare lo sviluppo della nostra economia».
Secondo i dati forniti da Pechino, il 59% dei 34 miliardi di dollari di esportazioni cinesi colpiti dai dazi Usa è generato da aziende straniere che producono in Cina.
Le importazioni prese di mira da Pechino come ritorsione, soia, sorgo e cotone, penalizzano in particolare gli Stati dediti all’agricoltura che sostengono Trump, come Texas e Iowa. L’import di soia americana – 14 miliardi di dollari l’anno scorso – era crollato già prima dei dazi.