il Giornale, 6 luglio 2018
Wyndham Lewis, un vortice furioso di arte e letteratura sempre in lotta
Certo, c’era qualcosa di patologico. Di patetico, pure. Nelle fotografie, la posa è sempre quella. Sguardo vizioso, fronte ampia, baffi da condottiero latinoamericano, pronto a percorrere ogni causa, purché perduta in partenza, sigaretta che ciondola dalle labbra o sbuca, tra l’indice e il medio mano, accuratamente sporca, da carpentiere della Storia. Appena incassava un complimento, Wyndham Lewis, schifato, esplodeva in improperi. La spietatezza era la sua eroina, doveva sfigurare tutto, punire tutti, soprattutto se stesso, per sopravvivere al tedio e alla vigliaccheria dell’arte. Nel 1918, ad esempio, Thomas S. Eliot lo definisce «la più affascinante personalità del nostro tempo, che unisce il genio moderno alla potenza primitiva». Dieci anni dopo, su The Enemy, rivista arci-individualista, che durerà tre numeri (dal 1927 al 1929), Lewis ricambia l’amico con gli interessi, giudicandolo un chierico bilioso, che ha scritto un poema, La terra desolata, dall’«atmosfera da pompe funebri». Siamo all’apice del Lewis più creativamente rabbioso, audace, indifendibile. Nel 1914 è lui, insieme a Ezra Pound, a dare forma, nei due vulcanici numeri di BLAST, alla nuova letteratura inglese, inventandosi, sulla scia del Futurismo («Marinetti aveva cominciato a bazzicare Londra dal 1910 e le sue performances erano molto gettonate»), una nuova, autoctona avanguardia. Si chiamava merito di Pound, il grande pubblicitario della poesia del ’900 Vorticismo: «Il nuovo vortice si tuffa nel cuore del Presente. Desideriamo il Passato e il Futuro, il Passato per asciugare la nostra malinconia, il Futuro per assorbire il nostro ottuso ottimismo. La vita è Passato e Futuro. Il Presente è Arte». Così strimpella Wyndham Lewis, la rockstar del modernismo, in un inno dell’ora&qui, dell’ora o mai più, spiattellando l’urlo in primo piano, il corpo, la corporeità, i nuovi primordi sull’altare (Our Wild Body è un saggio del 1910, una raccolta di racconti del 1927 s’intitola The Wild Body).
Nato in Canada, Nuova Scozia, sulla barca del padre, secondo la leggenda, nel 1882 padre che lascerà figlio undicenne e famiglia scappando con la cameriera, lisergico gesto da dandy virile e volitivo, Lewis prima fa gruppo per lo più con Ezra Pound, suo gemello e suo opposto: «proprio perché simili i due inizialmente si detestano ma proprio perché simili l’attrazione è più forte dell’antipatia» poi distrugge tutto. «Che sia chiaro: non c’è alcun movimento qui (grazie al cielo!), ma soltanto una misera persona; un solitario fuorilegge e non un gruppo. Mi sono mosso fuori da tutto. Fuori sono più libero», scrive Lewis, nell’editoriale di The Enemy, gennaio 1927. «Era maledettamente differente da noi nell’insieme, per metà era una merda. Ma un grande pittore. E scriveva lettere splendide»: questa è la sintesi che di Lewis fa Nancy Cunard, memorabile musa di mezza letteratura che conta. Ammaliò perfino Hemingway. Il quale, questione tra tori nello stesso pollaio, sputtana Wyndham Lewis in Festa mobile, «aveva una faccia che mi ricordava il muso di una rana gli occhi erano quelli di uno stupratore a cui è andata a buca». Lewis, oltre a fottergli l’amata, lo aveva sfregiato giudicando la sua prosa «il ritmo anonimo del proletario». Se la storia della letteratura ha perdonato a Pound dopo l’infamia della prigione la prossimità al fascismo, Wyndham Lewis sconta ancora l’atroce condanna di essere stato fedele alle proprie contraddizioni. Eppure, con i suoi libri corsari, Tarr (1918), Le scimmie di Dio (il romanzo impossibile del 1930, che si scaglia contro lo «stupido insolente chiacchiericcio» dell’arte moderna, l’«immenso e costoso scimmiottamento»), ha fatto la letteratura contemporanea con una furia linguistica non diversa da quella di Joyce, di Beckett, di Eliot. Avversa, semmai, eccessiva, sempre. «Sgradevole, ma robusto soprattutto polemista» (così Mario Praz, troppi decenni fa), pronunciare il nome di Wyndham Lewis è un tabù in UK figuriamoci da noi, dove a parte pochissimi (Giovanni Cianci, Andrea Colombo, ma soprattutto Armando Pajalich, che ha curato, con impagabile dovizia, Le scimmie di Dio, per il piccolo editore Mobydick, vent’anni fa, tomo ora introvabile) nessuno se l’è filato. Per questo, il libro di Stenio Solinas, Genio ribelle. Arte e vita di Wyndham Lewis (Neri Pozza 2018, pagg. 220, euro 18,00), è una primizia. Solinas, sciamano dei perduti, rabdomante degli sconfitti, ha il passo del romanziere ( «Alla metà degli anni Trenta, il polipo fritto divenne il piatto preferito dell’intellighenzia londinese. Finger food, lo si mangiava cercando di non ungere il volume di poesie di Federico García Lorca sempre presente nelle tasche dei commensali») e costella il libro di una grandine di particolari (il racconto dell’esilio canadese, durante la Seconda guerra, ad esempio, un precipizio nell’ego nichilista di Lewis, «condannato da se stesso»).
Due libri e un ritratto, comunque, definiscono Lewis, specie di Minotauro in un labirinto di ombre. Hitler, intanto, del 1931, «il primo libro in assoluto sull’argomento, e già questo aiuta a capire come sia più avanti rispetto agli altri intellettuali, inglesi e no, del suo tempo» (Solinas). Il libro è ancora quello più problematico dell’eccentrica bibliografia di Lewis: Hitler è letto come «un uomo di pace», il nazionalsocialismo una risposta al comunismo che «al posto della persona metterebbe la cosa quantità al posto della qualità». Alcuni passaggi sull’Europa («non è grande come un tempo. È una piccola penisola alle estremità occidentali dell’Asia perché non unirci e mettere la civiltà bianca in uno stato di difesa?») paiono scritti oggi. L’altro s’intitola Enemy of the Stars, è un poema teatrale del 1914, ed è «l’incunabolo sperimentale dell’avanguardia inglese, a cui guarderanno sia il Joyce ulissiano che Beckett» (Cianci). Tutto Lewis è qui: il genio che ha smutandato i tabù della letteratura inglese, divoratore di stelle abitando le stalle, emblema dello scrittore come nemico. L’ultimo è il ritratto fatto a Thomas S. Eliot nel 1938, il vertice della ritrattistica di Lewis, pittore di australe potenza. La Royal Academy non lo ammette all’esposizione annuale. Sboccia il caos. Eliot scrisse di non poter desiderare ritratto migliore. L’inaccettabile Lewis finì i suoi giorni, nel 1957, cieco, accecato dai ricordi e dalla rabbia.