Le interviste su cibo e dintorni raccolte negli anni gloriosi dell’Arena del Sole di Bologna sono una collana di pietre preziose e grezze, perché raccontano un’Italia molto diversa eppure vicinissima alla nostra. Basta avere il coraggio di guardarsi indietro, per ritrovare la forza intatta di uno dei due bisogni primari ( insieme all’aria) dell’Umanità. Obbligato e volontario, se è vero che di cibo — troppo o troppo poco — si può morire.
Mastroianni, uno delle nove voci narranti de “ Le tavole del palcoscenico” lo sapeva meglio di chiunque altro grazie a La grande abbuffata, il film- scandalo di Marco Ferreri, di cui era stato protagonista, insieme a Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli. Scandaloso, perché metteva insieme cibo, sesso e morte, senza dare giudizi morali né insegnamenti etici. E, infatti, Mastroianni lo ricorda come una delle esperienze più incredibili della sua carriera, «Perché il cibo entrava nelle interpretazioni di noi attori, così come le nostre interpretazioni erano strettamente legate al cibo, se non addirittura determinate da esso».
La connessione cibo-attore è un continuo entra-esci tra scena e vita reale. Nanni Loy confessa il sogno di far recitare Totò in un film che aveva appena finito di scrivere, Il padre di famiglia. Totò, pur malato, si era detto disposto a girarlo perché la sceneggiatura gli era piaciuta tantissimo e aveva convocato il regista a casa. «Mi disse che aveva bisogno di un paio di delucidazioni. Io cominciai a spiegargli con un linguaggio molto snobistico e intellettuale le caratteristiche del suo personaggio. Lui mi interruppe: Scusate, dottore, ma questo personaggio mio tiene fame o no? Io dico sì, è un poveraccio che si arrangia vendendo calze e magliette in giro per le case. E ricomincio con le mie spiegazioni. Allora lui mi interrompe di nuovo: Ma scusate, questo personaggio mio tiene sonno? Beh, nel copione non c’è però si può aggiungere una scena... E lui: ah bene, se tiene fame e tiene sonno io il personaggio lo faccio».
Nella valigia dell’attore, questo intreccio inestricabile fra arte e bisogni elementari non perde intensità nel passaggio tra cinema e teatro. Al contrario, il contatto fisico col pubblico lo esalta. Il racconto di Luca De Filippo è un profluvio di sensi: «Avevamo messo in scena la commedia di mio padre Sabato, domenica e lunedì. Nel primo atto mio padre faceva cuocere a Pupella (Pupella Maggio, ndr) veramente delle cipolle in scena perché, questo odore, doveva propagarsi per la sala. E dopo, nel secondo atto c’era questa tavolata in cui noi mangiavamo veramente, cioè arrivava il ragù fumante sul palco, con questi ziti... Era un momento molto bello e poi la gente si divertiva e anche noi attori, perché arrivava verso le dieci e mezza, un momento in cui avevamo veramente tutti fame».
La fame dell’attore ovviamente non è sempre e solo fame reale. Alida Valli ne dà un’interpretazione più intima, in chiave psicologica: «L’ho sempre vissuta come una gratificazione a fine lavoro. Una gratificazione enorme, perché arrivava dopo gli spettacoli. Io non sapevo cucinare niente, neanche due uova, ma ho amato molto il cibo buono e ho sempre mangiato di tutto. Però, la fame vera, quella arrivava solo a fine serata a teatro... ». Nel gioco dell’eterno ritorno, rieccoci al cinema: «Alfred Hitchcock cucinava in una maniera veramente incredibile. Era un bravissimo cuoco e gli piacevano molto i prodotti italiani. Aveva una gran tenuta a Carmel, dove aveva fatto venire dei contadini di origine italiani. Le sue cene erano speciali».