«La fame mi ricorda la mia adolescenza, la mia prima giovinezza. Le mie origini sono estremamente modeste, quindi non c’era bisogno di avere un frigorifero in casa (a parte che non ce l’avevamo), perché non avanzava mai niente, perché non era mai abbastanza il mangiare. Quindi la fame è legata alle discussioni ascoltate in casa, a mia madre che diceva “Non ci sono soldi per andare a fare la spesa”. E a mio padre che era un modesto operaio e non sapeva cosa dire. Assistevo a dei battibecchi penosi. Mi dicevano: “Vai tu dal pizzicagnolo e di’ che poi passa mamma”. E quello [il pizzicagnolo] diceva: “L’hai letto lì? Lo vedi che c’è scritto? Quando il gallo canterà, qui credenza si farà”. Ma [io replicavo] ha detto la mamma che poi passa… “Sì, va bene, va’...”. Quindi la fame è legata a un periodo della mia vita un po’… penoso, ecco. E non parliamo della guerra, naturalmente».
L’euforia della tavola
«Poi, a parte la necessità di mangiare per sopravvivere, la fame è legata a un piacere. Io amo molto mangiare, mi è sempre piaciuto. Anzi, non ho mai capito quelli che non amano mangiare. Divento molto sospettoso quando a tavola vedo uno che non mangia. Se sta facendo una dieta, è un altro discorso. Ma anche chi fa la dieta rompe, eh! Qui ci vorrebbe quel detto napoletano: chiste pare che niente fa, ma scassa ‘ o cazz!
Io amo molto stare a tavola con gli amici. La tavola non è un fatto banale, è un fatto culturale, a tavola si parla, si discute, si litiga. A tavola credo che si è abbastanza sinceri, perché un buon piatto e un buon bicchiere di vino creano quella condizione di lieve euforia che forse poi ti fa essere più sincero... È un luogo importante come la cucina, e infatti si dice: “Meglio di tutti poi è mangiare in cucina, perché la cucina è legata ai ricordi dell’infanzia, a nostra madre, alla famiglia”.
Alle volte ho mangiato fino quasi a scoppiare tanto il mio piacere di stare a tavola e ho un difetto: mangio molto velocemente, cosa per la quale sono stato spesso criticato, ma io dico sempre: Svelti, svelti, non si può mai sapere, arrivano i tedeschi…».
L’arte dell’uovo Brill
«Quando ho cominciato a lavorare c’era una vecchina che aveva sempre una o due stanze da qualche parte. L’albergo costava troppo e poi, in genere, si andava in due, due amici. La si risolveva bene, perché, mi ricordo, mi facevo le uova al tegamino usando il coperchio del lucido Brill, non so neanche se esiste più. Mettevo un pezzo di ovatta e poi l’alcol e sopra il tegamino che mi ero portato da casa e ci sbattevo sopra due uova e poi mi compravo la mortadella. Per me era già un buon pasto. Ai giovani lo consiglio: mangiate mortadella, non un hamburger. Certo, erano dei pasti un po’ così, ma siccome uno veniva anche da degli anni di… Ho cominciato che avevo 26 anni, la guerra non era finita da molto tempo, quindi già una bella pagnotta con la mortadella e due uova al tegamino e un frutto erano un bel pasto. So fare solo le uova al tegamino che mi piacciono molto, perché… a me piace che la chiara sia cotta, anzi, sul bordo deve essere dorata, quasi bruciacchiata, ma il tuorlo non deve essere cotto, appena appena, sennò sembrano uova sode. Allora, quando io me le faccio da solo metto prima la chiara (a volte ci aggiungo due pezzetti di mozzarella, così dopo fila) e quando vedo che la chiara comincia a rapprendersi allora calo i tuorli, ma appena appena perché sennò lei non azzuppa più il pane, e mi piace mangiarle nel tegamino, quei tegamini di alluminio che negli anni avevano perso un manico, ne rimaneva uno solo di manichetto...».
La Grande Bouffe
«Io ho fatto La Grande Bouffe. Diciamo subito che è l’esperienza più diversa, più fuori dalle righe, più fantastica che io abbia mai fatto in campo cinematografico, sia per l’atmosfera che si è venuta a creare durante la lavorazione, sia per il tipo di film, uno fra i più particolari mai girati in cui il cibo entrava nelle interpretazioni di noi attori, così come le nostre interpretazioni erano strettamente legate al cibo, se non addirittura determinate da esso.
Difatti Ugo Tognazzi ci sguazzava, perché per lui era un sogno che si realizzava, tutto quel cibo preparato da Fauchon (il re della gastronomia parigina, ndr), che forniva il cibo, il cuoco e tutto. Poi Ugo ci metteva anche lui le mani, naturalmente. Più che un gran mangione il suo piacere era fare per gli altri, cucinare...
Il bello è che noi mangiavamo sul set e poi, nella pausa, andavamo anche in un ristorantino di fronte. Come se non fosse bastato quello che avevamo già mangiato. Fuori dal set, anche per questo il film è riuscito, si era creata tra noi quattro, Philippe Noiret, Michel Piccoli, Tognazzi ed io, un’atmosfera bellissima, non c’è stato nessun tentativo di gareggiare… Evidentemente Marco Ferreri è anche il tipo di regista capace di creare rapporti così belli».