Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  luglio 05 Giovedì calendario

La moglie di Jashin: “Il mio gigante che piangeva per i film e la lirica”

Valentina Timofeevna non ha cambiato nulla nella casa condivisa con Lev Ivanovich Jashin per 26 anni. «Ci siamo conosciuti in una balera, a Tuscino. I miei amici me lo additarono. Mi sembrò uno spilungone dalle gambe lunghe, non un gigante, era 1 e 84, ma faceva impressione per la sua magrezza. Ballava con gli stivali di similpelle dell’esercito. Si muoveva cauto, senza sicurezza. Pensai che non sapesse ballare e scelsi un altro partner. Mentre lui ballava valzer con le mie amiche. Ci sono voluti quattro anni prima che ci sposassimo. Me lo aveva chiesto con insistenza, io rimandavo. Non ci vedevamo molto. Partiva spesso. Poi guardai le mie amiche: rischiavo di restare una fidanzata per l’eternità. Quando presentammo domanda di matrimonio, Lev posò il modulo davanti a me e disse: “Scrivi tu che hai una grafia più bella”. Alla riga sul cognome decisi di non cambiare il mio, rimanendo Shashkova. Lev mi tirò il foglio dalle mani, lo gettò nella spazzatura e uscì. Per fortuna, incontrammo Mikhajlov, il ciclista, amico suo, con la moglie Vera. Ci offrirono un the a casa loro. Lev si calmò. Ci sposammo il 31 dicembre. Il giorno dopo, Capodanno del 1955, prese il baule con le tute e partì per due mesi di allenamenti. Le mogli dei calciatori sono come quelle dei militari: il loro dovere è organizzare la partenza, aspettare e accogliere».
Perché le figlie non hanno preso il cognome paterno?
«Sono sposate, anche i loro mariti se la sarebbero potuta prendere, come un giorno Lev se la prese con me. Ai tempi dello zar, quando c’era il pericolo che cessasse una stirpe, i nobili prendevano un cognome doppio. Ma noi non abbiamo sangue blu».
Ricorda la prima volta che lo ha visto in porta?
«Un giorno Lev mi invita allo stadio prestandomi la sua tesserina, un piccolo biglietto verde con la scritta “senza diritto a occupare un posto” . Con questa “kartochka” dovevi cercare un posto libero o guardare la partita in piedi. Non ricordo con chi giocasse. Lev mancò la palla, e nella partita successiva con la Tblisi accadde una vera tragedia. Sul 4-0 nel primo tempo Lev si scontrò con un difensore e i georgiani recuperarono un gol, poi un altro, e poi un terzo. All’intervallo era pareggio: 4-4. Lev si mise a sedere sulla panchina e pianse».
Il grande Jashin piangeva?
«Un’aria di musica lirica o un film drammatico potevano portarlo alle lacrime. Si vergognava della sua sensibilità eccessiva, cercava di non mostrarla in pubblico».
Lei andava spesso allo stadio?
«Quando era possibile. Ma l’ho visto allenarsi solo una volta. E mi è bastato per tutta la vita. Non riuscivo a guardare perché veniva martellato dai colpi di pallone. Lev soffriva di ulcera sin dai tempi della guerra. Per stanchezza o malnutrizione. Si portava sempre dietro una confezione di bicarbonato. Se ne versava una manciata sul palmo della mano, la inghiottiva e cercava qualcosa da berci sopra. Ogni volta che finiva il campionato, andava in ospedale per un ciclo di terapie. Perciò mi indignai nel vedere come venisse flagellato di pallonate durante l’allenamento».
Lei abita qui dal 1964.
«Per 26 anni con lui e quasi 30 da sola. Quando venne Beckenbauer a cena, mio marito mi avvertì all’ultimo secondo. Per poco non sono caduta dalla sedia. “Come faccio a cucinare in tempo qualcosa di buono?”. Chiamammo un ristorante di lusso, ci portarono piatti già pronti e due casse di birra bavarese con una dozzina di bottiglie. Per la prima volta in vita mia assaggiai l’aragosta, ma con la birra fu un fiasco. Dentro la prima cassa c’era birra ceca. Beckenbauer fece una smorfia. Quando andò via, spacchettammo la seconda cassa e ci trovammo la bavarese».
Il famoso berretto di Jashin che porta in tante foto, lo ha conservato?
«Non c’è più. Glielo rubarono dopo la finale degli Europei 1960 a Parigi contro gli jugoslavi. Appena l’arbitro fischiò la fine, una valanga di tifosi scese in campo e qualcuno lo prese. Lev lo poggiava sempre sul prato vicino alla porta».
Perché non ne ha comprato un altro?
«Teneva tantissimo a quello lì, gli era molto caro perché lo aveva portato sin dall’inizio. Guardate le vecchie foto dell’epoca: si vede che dopo il 1960 Lev giocava senza».
(© Rossiskaja Gazeta. Sito web: www.rg.ru. Traduzione di Aleksej Tekhnenko)