Waithe, 34 anni, gay e attivista lgbt, originaria del South side di Chicago, lo stesso quartiere in cui è cresciuto Barack Obama, è apparsa nel fantasy di Ava DuVernay Nelle pieghe nel tempo ma è giunta alla fama con il blockbuster di Steven Spielberg
Ready Player One. Ora arriva sul piccolo schermo in Italia (dal 15 luglio su Fox) la serie The Chi (“Chicago” in slang), che ha scritto e prodotto, un ritratto senza peli sulla lingua e iperrealistico dei ragazzi della città che ha già fatto parlare molto gli Stati Uniti. Tanto da annunciare una seconda stagione.
Così Lena Waithe è diventata l’indiscussa nuova potenza nera a Hollywood, la Donald Glover al femminile ( Time l’ha inserita tra i 100 personaggi più influenti dell’anno), e pochi dubitano che possa benissimo imporsi come la prossima Shonda Rhimes, la nota showrunner televisiva di Grey’s anatomy e Scandal, o addirittura come la nuova Spike Lee. Perché di rabbia da esprimere e di impegno sociale Lena Waithe ne ha da vendere. «Siamo passati dalle catene alle manette», dice parlando della nuova ondata di razzismo in America. «Stiamo ancora scappando. I neri sono perennemente senza fiato e con poche occasioni di relax».
Recitare in un grande film come Ready Player One era stata una novità per Waithe: «Mi sono divertita molto con quel film.
Al mio personaggio piace essere una donna ma vuole essere trattata come gli uomini, con giustizia e rispetto. Per questo si rifugia nella realtà virtuale, per sfuggire al sessismo». Ma diventare una star dei blockbuster non è la sua ambizione, anzi sta già sognando il suo prossimo progetto, un film biografico sull’eroina televisiva Mary Tyler Moore. «Non credo che la gente se l’aspetti da una lesbica nera del sud di Chicago. Ma ho letto la sua autobiografia mille volte».
Con il suo discorso da vincitrice agli Emmy aveva commosso il pubblico ringraziando «tutti quelli che hanno voluto abbracciare un piccolo indiano del sud Carolina (il protagonista di Master of none Aziz Ansari,ndr) e una piccola nera lesbica di Chicago. Lo apprezziamo più di quanto non possiate capire».
Quel discorso, confessa ora durante il nostro incontro, era ispirato alle donne della sua vita: «Come mia nonna, che è stata abbastanza coraggiosa da lasciare l’unica casa che aveva conosciuto a 17 anni. La mia bisnonna aveva dovuto firmare per lei un permesso perché potesse sposare mio nonno e lasciare il sud, un posto che odiava, e trasferirsi a Chicago. E come mia madre, che conosceva solo Chicago e per fuggire da un matrimonio con abusi tornò a casa di mia nonna. Alla fine siamo cresciute tutte in quella stessa casa, noi, tre generazioni di donne che non hanno mai paura di farcela da sole e di dire quello che pensano». Il razzismo e i pregiudizi televisivi sono quelli che vuole combattere con il suo lavoro e con The Chi: «Siamo esseri umani. Non è che siamo tutti ballerini di tip tap e non stiamo sempre lì a sognare di lasciare il quartiere. Non siamo tutti rapper, come invece sembrerebbe guardando come ci rappresentano in tv». Era importante prendere le distanze da tutti gli stereotipi dei personaggi neri di show come Empire, ma allo stesso tempo trattare i problemi che le comunità nere delle metropoli americane — Chicago ma non solo — affrontano oggi. Lena Waithe dice che progetti come i film Moonlight, Scappa- Get out e la serie tv Atlanta di Glover «saranno ricordati nella storia perché hanno cambiato la percezione della gente su quello che sono il cinema e la televisione realizzata da neri. È un’ispirazione guardarli perché l’industria ora non ha scelta che venire da noi e dirci “ok, dateci quello che avete. Vogliamo sostenervi, perché quello che fate ovviamente sta toccando certe corde nel pubblico”».
«A nessuno gliene importa niente quando i bianchi ammazzano i neri, e a nessuno gliene frega niente quando i neri si ammazzano tra di loro», continua l’attrice e produttrice. «Allora mi chiedo: chi attribuisce valore alle nostre vite? Wall Street?
Non dovremmo invece attribuirci noi stessi il nostro valore?
Se non ci facciamo forza tra di noi, chi ci renderà più forti? Se non raccontiamo noi le nostre storie, qualcun altro le racconterà per noi e inevitabilmente sbaglierà.
La mia missione è far capire che questi giovani neri non sono nati con una pistola in mano. Sono cresciuti con tutte le promesse e le speranze di qualsiasi altro giovane negli Stati Uniti. Voglio restituire loro tutta l’umanità che la nostra fiction televisiva e cinematografica sembra aver sottratto loro. Riappropriarci della nostra narrativa».