La Stampa, 5 luglio 2018
Un robot al posto del giudice. In Italia un clic potrebbe risolvere milioni di processi
La rivoluzione robotica supera la frontiera delle attività intellettuali, a torto considerata inespugnabile, e irrompe nelle funzioni vitali della democrazia. I robot possono pronunciare sentenze sulle controversie tra uomini, come, se non meglio, di giudici professionali? Tecnicamente, sì. Grazie alla prevedibilità dei comportamenti umani, alla serialità della casistica giudiziaria e alla combinazione algoritmica dei precedenti. Filosoficamente, la questione è controversa. Non a caso l’annuale convegno promosso dal giurista Natalino Irti e ospitato oggi dall’Accademia dei lincei ha un titolo in chiaroscuro: «La decisione robotica: premesse, potenzialità, incognite».
Nell’Italia malata di denegata giustizia la suggestione è forte: milioni di processi arretrati risolti con un clic. Non è chiaro a che prezzo. I cittadini si sentirebbero più garantiti dai robot o da certi pm? Chi governerebbe database e algoritmi? Chi si assumerebbe la responsabilità delle sentenze? Il robot sarebbe conservatore o asseconderebbe l’evoluzione della società? Tutelerebbe i diritti dei più forti o dei più deboli? Dubbi accresciuti dal capitalismo delle piattaforme che «per la prima volta nella storia – sostengono i giuristi Ugo Mattei e Alessandra Quarta in “Punto di svolta” (Aboca) – è riuscito a reperire un’altra classe di professionisti, tecnologi e codificatori, in grado di sostituire i giuristi (...) in settori in cui l’innovazione tecnologica può produrre disuguaglianze nuove e inattese».
L’uso dell’intelligenza artificiale in campo giuridico conosce già esperimenti. Il sito www.wevorce.com promette risparmio di tempo e denaro alle coppie in crisi: compili un modulo, al resto ci pensa il computer. Un algoritmo prevede l’esito del divorzio, stabilisce la soluzione ottimale per i figli, pianifica l’assetto patrimoniale e prepara i documenti. Tutto per 949 dollari, almeno dieci volte meno del costo della procedura tradizionale.
La Ibm ha lanciato il progetto Watson, con l’obiettivo di creare un «sistema cognitivo computerizzato» anche per le controversie giudiziarie. Nei prossimi dieci anni l’attività di ricerca per istruire un processo sarà semplificata. E il libero convincimento del giudice, il sottile equilibrio tra rigore formale ed equità sostanziale? «Certamente Watson ci renderà giuristi più informati, ma non necessariamente migliori», ha detto Jordan Furlong in un dibattito pubblicato sulla rivista della facoltà di Legge della Queen’s University di Kingston, Canada.
In New Jersey la decisione sulla libertà su cauzione è affidata a un algoritmo che prevede il comportamento dell’imputato, se scarcerato. I critici rilevano che l’algoritmo incorpora i pregiudizi razziali. Non meno dei giudici umani, obiettano i sostenitori dell’esperimento.
Ironie e sollievo hanno salutato gli incidenti in cui sono incorse le prime auto senza guidatore. L’errore robotico è meno accettabile di quello umano, peraltro emendabile da un superiore tribunale. Un robot avrebbe condannato o assolto Enzo Tortora? E se il robot sbaglia sentenza che si fa: si cambia algoritmo? Domande che interrogano le più diverse discipline. E tutti noi, prima o poi.