Corriere della Sera, 5 luglio 2018
Il caso Lega tra lingotti, diamanti e soldi in Tanzania. E c’è anche il filone sul dopo Bossi
Sei anni di indagini e processi sembrano non aver ancora fatto luce definitiva su come siano stati utilizzati tutti i 49 milioni di euro di rimborsi elettorali ottenuti gonfiando i bilanci dalla Lega Nord tra il 2008 e il 2010 quando saldo alla guida del Carroccio c’era il fondatore Umberto Bossi. Gran parte di quel fiume di denaro è evaporata in mille rivoli per mandare avanti il partito, ma ce n’è un’altra che, secondo la magistratura, non si sa ancora dove sia finita.
L’indagine si concretizza a fine del 2011 a Milano nell’ufficio dell’allora procuratore aggiunto Alfredo Robledo che apre un fascicolo «Lega Nord» (la sede del partito è a Milano) con i sostituti Paolo Filippini e Roberto Pellicano. Dentro ci finiscono gli atti arrivati dalle Procure di Napoli e Reggio Calabria che in due diverse indagini avevano intercettato l’allora tesoriere Francesco Belsito che parlava di soldi e di affari. All’inizio di aprile del 2012, la Guardia di Finanza accede all’ufficio di Belsito in Senato a Roma, apre una cassaforte e trova una cartellina rossa con scritto «The family» in cui c’è una lunga serie di spese (mezzo milione di euro) pagate dal partito per le esigenze personali del Senatùr e della sua famiglia, a partire dai figli Renzo e Riccardo, per il quale resta memorabile la laurea farlocca comprata in Albania. Dall’analisi dei conti della Lega emergono milioni spesi in diamanti e lingotti d’oro (poi recuperati) o investiti tra Cipro e la Tanzania. Una perizia sulla documentazione relativa ai rimborsi ottenuti dal partito apre la strada all’accusa di aver usato «artifici e raggiri» per riuscire a ottenere circa 40 milioni dal Parlamento. Bossi è costretto a dimettersi dalla carica di segretario della sua creatura politica che viene affidata a Roberto Maroni. A fine 2013 i pm chiudono l’inchiesta accusando il Senatùr di truffa aggravata ai danni dello Stato con Francesco Belsito e tre componenti del comitato di controllo contabile del partito. Per Bossi, i suoi due figli e Belsito c’è anche l’accusa di appropriazione indebita.
Il processo, però, si divide in due all’udienza preliminare quando il gup decide di trasmettere il filone sui rimborsi elettorali per competenza a Genova, dove ha sede la banca in cui fu accredita a Belsito l’ultima trance dei rimborsi elettorali, proprio quei 5,7 milioni finiti misteriosamente in Tanzania passando per le banche dell’isola di Cipro. Nel processo di primo grado che resta a Milano, il 10 luglio del 2017 Umberto Bossi sarà condannato a due anni e tre mesi di reclusione, Renzo a un anno e sei mesi, Belsito a due anni e sei mesi, mentre con il rito abbreviato Riccardo Bossi aveva già preso un anno e 8 mesi di carcere nel marzo del 2016. A Genova il processo si chiude 14 giorni dopo, ed è una nuova mazzata per l’anziano ex leader del Carroccio: condanna a 2 anni e mezzo per lui, a 4 anni e 10 mesi per Francesco Belsito e confisca di 49 milioni ai danni della Lega Nord. La Procura di Genova, infatti, aveva fatto altre indagini arrivando a ipotizzare che la truffa dei rimborsi raggiungesse i 56 milioni, tetto che però il giudice aveva ritenuto di dover fare scendere fino a 49. I pm, che riescono a sequestrare a malapena tre milioni e mezzo di euro nelle casse esangui della Lega e degli imputati, vogliono cercare ancora, e a tappeto, i soldi che mancano per colmare il danno subito dalle casse dello Stato per i pregressi versamenti concessi al Carroccio. Vogliono poter bloccare ogni fondo riferibile al partito oggi guidato dal ministro dell’interno Matteo Salvini. Dopo che il Tribunale del riesame dà loro torto, sostenendo che non può essere fatto, la Cassazione ribalta questa decisione dando ragione ai pm che intanto hanno aperto un’altra inchiesta, questa per riciclaggio, sull’ipotesi di un reimpiego occulto dei rimborsi illeciti anche dopo l’era Bossi.