il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2018
Erano giovani, erano poeti e cantarono la Guerra
Non si spaventi il lettore di fronte alla mole (790 pp.) di Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale curata con passione e scrupolo erudito da Andrea Cortellessa. Non si spaventi davvero, perché ha di fronte due strade. La prima, che richiede pazienza, ma che procedendo nella lettura coinvolge sempre più, è quella di un interesse storico. Attento al portato dei documenti poetici per il loro valore di testimonianze, di prese di posizione all’inizio del conflitto (tutti, o quasi, interventisti, i poeti, chi per convinzione, chi per rassegnazione e chi, per contro per maniacale esaltazione o per esibizionismo), e per il radicale rovesciamento di molte opinioni (il dolore della guerra, lo schifo, l’obbrobrio, la morte e la tragica vanità della stessa) mentre il conflitto proseguiva. In questo senso è indispensabile l’ausilio dato dal curatore nelle sue 87 pagine di introduzione, e nei lunghi cappelli alle singole sezioni (l’antologia è strutturata per temi), che occorre qui dettagliare nei titoli: “Antefatto”, “La guerra-festa”, “La guerra-cerimonia”, “La guerra-comunione”, “La guerra-percezione”, “La guerra-riflessione”, “La guerra lontana”, “La guerra-follia”, “La guerra-tragedia”, “La guerra-lutto”, “La guerra ricordata”, “La guerra postuma”.
La guerra, insomma, seguita passo dopo passo analizzando il punto di vista, i pensieri, le emozioni, di chi, poeta o aspirante tale, andato in guerra, ha sentito il bisogno di mettere in versi un vissuto in cui si riflettono le diverse posizioni, ideologiche o morali, o semplicemente epidermiche ma diffuse, sul genere viva la guerra, dell’epoca. Non bastasse, aggiungono documentazione a documentazione una postfazione: “Il senno di poi”, e le 76 pagine finali intitolate “Foglio matricolare. Schede bibliografiche e indice per autore”, preziose per capire meglio gli slittamenti fisici e mentali dei diversi poeti negli anni del conflitto. La seconda strada, più breve, è quella della semplice lettura dei testi secondo un criterio di carattere estetico: ci sono poesie belle e destinate a restare, e poesie brutte, devastate dall’esaltazione, che compaiono qui per il loro peso di testimonianza, come l’orrenda Canzone d’oltremare di d’Annunzio, di cui regalo tre versi: “Odo nel grido della procellaria/l’aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro/nel vento della landa solitaria”. Ma si può? Torniamo però al discorso principale. “In molti sensi la Grande Guerra fu un’epidemia di schizofrenia di massa”, spiega il curatore. Dove i testi che hanno resistito al tempo “sono testi di denuncia, più o meno intenzionale, degli orrori, dei disastri della guerra”. “Sono testi che intendono restituire la sostanza traumatica della guerra al lettore che non sa, che non ha visto”. E in questo senso, ma anche nella loro accezione estetica, il meglio arriva dalla “stagione all’inferno” (così Cortellessa) di un Rebora che dapprima si cala in un violento espressionismo visivo – e si veda Notte a bandoliera – (ma del resto la mescidazione futurismo-espressionismo, l’allineamento di immagini su immagini, la pregnanza dei vocaboli in utilizzo costituiscono, nel bene e nel male, una delle caratteristiche salienti dell’Antologia), per passare poi al rigetto delle parole quasi viscere e sangue di Viatico (una delle sue liriche più sconvolgenti) e alla denuncia (“Colpevoli fummo per non sapere”, in Coro a bocca chiusa). O l’atonia di chi è sconvolto, avendo compreso che è finita per lui, col termine della guerra, a segnare la rottura fra due mondi, la stagione del poetare, come in Sproloquio d’estate di Camillo Sbarbaro (“ormai, davvero dimenticatissimo”, commenta con rammarico Cortellessa). Ma, non potendo render ragione in poche righe di 67 autori e più di 130 poesie occorrerà adesso limitarsi a segnalare il meglio, oltre ai già citati. Rimandando il lettore a quella che è “di gran lunga la maggior testimonianza poetica” (così Cortellessa) “sulla disfatta di Caporetto: la “Sonada quasi ona fantasia” che è il poemetto Caporetto 1917, dell’immenso poeta dialettale milanese Delio Tessa. Rimandandolo altresì alla magnifica lirica di Montale che dà il titolo all’Antologia, ai versi di Dino Campana, di Gadda, di Solmi (e peccato che Palazzeschi sia antologizzato con un solo testo). Mentre il primo Ungaretti ci appare qui, oggi, così scopertamente teatrale! A chiudere, mi piace aggiungere una lirica di Annunzio Cervi, non compresa nell’Antologia, ma fulminante nella dolce e dolorosa lievità di una fantasia di morte: “In un mattino/settembrino/un po’ velato,/ti comprerai/ una splendida agonia/vellutata/come una custodia di violini/ e vi coricherai/ la tua anima bambina”. Morì sul Grappa il 28 ottobre 1918, a pochi giorni dall’armistizio. Aveva solo 26 anni.