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 2018  luglio 05 Giovedì calendario

Ritratto di Nicola Zingaretti, prossimo leader del Pd

La prima riga di tutte le sue biografie contiene il suo destino: “È il fratello minore di Luca, l’attore”. Volendo Nicola Zingaretti, detto Zinga, ex molte cose, ma sempre in procinto (forse) di farne altrettante, compresa la più rischiosa nei panni (forse) del futuro segretario del Partito democratico, è anche il fratello minore di Walter Veltroni, il cugino giovane di Francesco Rutelli, il nipotino prediletto di Goffredo Bettini, mangiafuoco di Botteghe Oscure che da mezzo secolo fabbrica dirigenti, usando le macerie dell’antica roccaforte rossa.
Per la seconda (o terza) volta, forse farà il grande salto e si candida. Anzi lo annuncia al Corriere della Sera: “Io ci sono”. Che sembra un indicativo perentorio, salvo l’immediato slittamento al condizionale: “Anche se sono il primo a dire che il problema fondamentale non è il segretario”. Ah, no? Niente male per un partito rimasto senza né testa, né coda, imballato tra le correnti dei capicorrente che si fanno la guerra dei dispetti e quelle del Mediterraneo che la guerra, con morti e profughi, ce la portano in casa. Nel frattempo, dice che la priorità è “la sfida collettiva”. L’imperativo è quello di “riaggregare”. La strategia: “Sostituire la rabbia con la passione”. L’obiettivo: “Saper includere, valorizzare”. Il tutto per “Immaginare l’Italia del 2050”. Bene, benissimo. Dieci e lode in orale, avrebbe detto il grande Dino Risi, salutando.
L’ultima volta che l’ho incontrato, nel retro di uno studio televisivo, eravamo alla vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo e della sua corsa alla presidenza della Regione Lazio. Gentilissimo, sorridente, mi prospettò catastrofi: “Non lo so, io forse ce la farò, lavoriamo pancia a terra, ma per il partito alle elezioni politiche sarà un bagno di sangue. Un bagno di sangue!”. Quando si accesero le luci dello studio, e andammo a sederci, non cambiò faccia, non cambiò sorriso, ma annunciò serenamente il contrario: “Andrà tutto bene. Alle Politiche resteremo il primo partito. E alle Regionali io sarò eletto”. Mentendo tre volte, ne aveva imbroccato una giusta.
Del resto Nicola Zingaretti, anno 1965, mastica le mezze verità e le doppie bugie della politica da quando aveva i capelli lunghi e i calzoni corti. Viene da una famiglia di buona borghesia romana comunista, padre direttore di banca, madre impiegata che se lo portava alle rassegne estive di Massenzio quelle ideate dal grande chef sociale, Renato Nicolini, e sulla spiaggia di Castelporziano, quando andarono in scena i poeti, la luna e l’anno 1979.
La sua prima manifestazione studentesca, Piazza del Popolo, 13 maggio 1981, si scioglie all’improvviso perché in San Pietro un tale Alì Agca ha appena sparato a papa Wojtyla. E sciogliendosi, tra le bandiere e le merende, mette uno accanto all’altra Nicola e Cristina, liceali, amici da quel giorno, poi fidanzati, poi marito e moglie, fino a oggi, trent’anni e due figlie dopo, proprio come in una canzone di Baglioni.
A differenza di quasi tutti i titolari della nuova politica, Zinga non viene dalle chiacchiere dei bar, né dalla lotteria della Rete. Ha fatto lunga e pensosa gavetta da Prima Repubblica. Partendo dal Pci di Enrico Berlinguer, passando per Occhetto, il Muro di Berlino e perfino D’Alema, non s’è fatto mancare niente: Pds, Ds, Ulivo, fino alla cagnara psichiatrica del Partito democratico, nato con in tasca il Paese e demolitosi in proprio, un pezzetto alla volta.
Da ragazzo è stato nel direttivo della Sinistra giovanile, erano i tempi remoti di Pietro Folena, il segretario elegantone. Poi il consigliere comunale in Campidoglio, ma già con attitudine spiccatamente glocal, locale e globale. E dunque scrivania da funzionario al Bottegone con il suo amico Nichi Vendola. Ma anche in Bosnia a portare aiuti umanitari, dopo i bombardamenti. In Israele con i pacifisti, sui confini di guerra. In Birmania con Veltroni a rendere omaggio a Aung San Suu Kyi, sacerdotessa di (quasi) tutti i diritti umani. E poi con il Dalai Lama, esule dal Tibet, personaggio ultra pop, guida spirituale del mondo in generale e di Richard Gere in particolare.
Il salto nel 2004, eurodeputato a 38 anni, dunque Bruxelles, dove si specializza in regolamenti su diritti e legalità, lavora sul serio, senza alzare troppa polvere, senza inventarsi baruffe o polemiche. Assecondando la sua migliore attitudine, quella di essere una risorsa. E il suo migliore difetto, quello di rallentare il tempo davanti al bivio delle decisioni.
Per esempio quando gli chiedono di battersi contro Renata Polverini per la poltrona di governatore del Lazio. È il 2008, destra imperante. Lui dice sì, poi ni. Alla fine si sfila. Sceglie e vince la Provincia. Da Firenze si fa vivo un giovane sindaco, Matteo Renzi, che gli rimprovera di non avere avuto abbastanza coraggio. Zingaretti stringe gli occhi e l’eloquio: “Non mi interessa ridurre la politica al carrierismo”. Prima avvisaglia di una rotta di collisione mai disinnescata negli anni a venire. Uno tormentato dall’impazienza, l’altro dal dubbio.
Nel 2012 annuncia che vuole sfidare il nero Alemanno, candidato sindaco di Roma fatale. Ma poi cambia idea. E quando la stella della Polverini – nata in uno studio televisivo, bruciata dagli scandali di camerati & Batman – si inabissa con dimissioni, Zingaretti si alza addirittura in piedi: “C’è una emergenza democratica. Sarebbe un crimine sottovalutarla”.
Batte l’ex finiano Francesco Storace, che ormai ha l’eloquio politico di un refuso, incassando 1,3 milioni di voti. Governa senza sgovernare. Raddrizza i bilanci. Mette le ruote al trasporto regionale. Investe in cultura. Resta fuori dal fango di Mafia Capitale. E pure da quello del dopo referendum del 4 dicembre 2016, dove ha votato sì, ma senza farne una bandiera. Né un furbo piagnisteo anti-Renzi subito dopo: “Non mi interessa la retorica dei capri espiatori”. E nemmeno quella “contro i gufi”. Non gli piacciono i proclami. Tantomeno i comizi. E d’abitudine non va in televisione.
In compenso va al supermercato con le figlie a fare la spesa. Cucina. Elogia il calore della famiglia. Non frequenta terrazze, salotti, feste private, convegni col buffet, piacendo persino a chi non fa molto altro, da Luca Cordero di Montezemolo a Pier Ferdinando Casini, passando per il sommo cardinale Tarcisio Bertone.
Da governatore vuole “ragionare, non strillare”. Essere, non esibirsi. E ogni tanto gli piace parlare ispirato: “Per indicare una via al tuo popolo, devi essere parte di quel popolo”.
Lo scorso 4 marzo è stata per l’appunto l’incoronazione del suo basso profilo altamente consapevole. Mentre il partito dei fuochi d’artificio crollava sotto il 19 per cento, lui se l’è cavata, rimontando nell’ombra un voto alla volta: “La scommessa è ricostruire la speranza”. Quindi segretario sì o no? Vedremo.
A chi lo chiama Tentenna fa sapere che “siamo di nuovo in emergenza democratica”. Lui non si è defilato, ma lavora nella trincea dell’amministrazione. Parla con il segretario pro tempore Maurizio Martina per rammendare il partito e con Beppe Sala, il sindaco della trionfante Milano per trovare “nuovi stimoli”. Studia dossier con Paolo Gentiloni, il migliore antibiotico a Matteo Renzi. E con Marco Minniti, l’alternativa al Salvini dei naufragi, il Salvini “della Lega autoritaria, razzista, xenofoba”. Non pensa che i 5Stelle “siano un movimento di destra”. Prevede turbolenze nel governo e forse scissioni. Per questo si prepara a ragionare, quando sarà, con il loro cuore democratico.
Nel frattempo chiede il congresso del partito “prima delle prossime Europee”, a marzo. Chiede “ricuciture, non lacerazioni”. Consapevole che potrebbe tutto sfaldarsi in una mediocre guerriglia di narcisismi, ma senza più acqua in cui specchiarsi. Agli intimi dice di essere pronto alla battaglia. A tutti gli altri, per prudenza, dice “Forse”.