Il Messaggero, 5 luglio 2018
Fino a 1.430 miliardi di perdite in 9 anni: ecco quanto costa la fine di Schengen
Quanto costa il no-Schengen, ovvero il ritorno alle frontiere nazionali e l’abolizione della libera circolazione di beni e persone varata nel 1985 ed estesa oggi a 26 Paesi non solo membri dell’Unione? Istituti e fondazioni, think tank e uffici governativi si sono sbizzarriti nell’analisi dei costi come delle spese, posto che è più facile reintrodurre i controlli che cancellarli. Si va dai 230 miliardi di euro in 10 anni in caso di abolizione totale, attinti a studi del 2016 dal Parlamento europeo nella relazione annuale approvata lo scorso 30 maggio circa il funzionamento dello spazio, ai ben 1430 fra il 2016 e il 2025 nel più pessimistico degli scenari del think tank teutonico Bertelsmann Stiftung.
I SETTORI COLPITI
La Commissione Europea immagina una forbice tra 5 e 18 miliardi l’anno, in cui il maggior impatto è dato dall’incremento dei costi per i lavoratori transfrontalieri. Ma in realtà tutti i settori verrebbero colpiti: trasporti, turismo, industria, agricoltura... In più, il tramonto dello spazio Schengen potrebbe segnare la fine della moneta unica, l’euro. E i costi a quel punto sarebbero ben più alti. Lo studio condotto da Prognos AG per i tedeschi prevede che se tornando a un’Europa pre-Schengen i prezzi dei beni importati crescessero del 3 per cento, l’Italia perderebbe circa 150 miliardi, la Germania 235 e la Francia 244. La premessa è nero su bianco nel testo dell’Europarlamento di maggio: «Lo spazio Schengen è una delle principali conquiste dell’Unione Mantenere o reintrodurre i controlli alle frontiere interne comporta costi diretti sul piano operativo e degli investimenti per i lavoratori transfrontalieri, i turisti, i trasportatori di merci su strada e le amministrazioni pubbliche, con effetti devastanti sulle economie degli Stati membri». Proprio così: devastanti. C’è l’esborso una tantum fino a 20 miliardi di euro per l’insieme dei paesi coinvolti, ai costi di esercizio annuali per 2 miliardi. La costruzione stessa di muri anti-migranti ha avuto un prezzo: 1200 chilometri di barriere per 500 milioni di euro e fondi Ue, fra il 2007 e il 2010, che hanno contribuito a sviluppare 545 sistemi di sorveglianza su 8.279 km di confini esterni dell’Unione e oltre 22mila attrezzature di controllo. In generale, costano le conseguenze dei controlli ripristinati: attese più lunghe alle frontiere, trasporti rallentati, ore di lavoro perse, maggiorazione dei prezzi delle merci in entrata e in uscita, diminuzione della competitività delle aziende, un peso speciale sui pendolari tra un paese e l’altro, gravissime ricadute su tutto il comparto del turismo, in particolare sui viaggi brevi e i fine settimana.
IL FONDO MONETARIO
Del resto, quando Schengen fu varato il Fondo monetario internazionale calcolò un beneficio per l’interscambio comunitario di 1-3 punti percentuali sul Pil. E Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, ha calcolato una perdita di 55 euro a veicolo per ogni ora di ritardo alla dogana. Se fosse vero, 60 milioni di veicoli a spasso per l’Europa brucerebbero in attese almeno 1.6 miliardi di euro. Poi ci sono i ritardi dei treni E il costo di gestione delle frontiere: 100 milioni l’anno per le 9 della Germania. Per Morgan Stanley gli scambi bilaterali diminuirebbero del 10-20 per cento. Senza contare le ripercussioni della perdita di fiducia e del fallimento del mercato unico sul rendimento delle obbligazioni dei governi degli Stati nuovamente blindati.