La Stampa, 2 giugno 2018
Cristiano De André canta “Storia di un impiegato”. Intervista
Se l’intervista si facesse a occhi chiusi sarebbe facile, persino scontato, credere che a rispondere alle domande fosse ancora Fabrizio De André. Per il tono della voce e il ritmo del dialogo, il dubbio nessuno se lo porrebbe. Ma qui oggi tutto appare più incredibile perché il discorso sembra davvero non essersi mai interrotto.
Prosegue a distanza di 50 anni, con gli stessi termini e lo stesso entusiasmo, esattamente nello stesso luogo: sulla terrazza della villa di Portobello, nella Gallura più lontana dalla Costa Smeralda, di fronte al mare di Aglientu, con uno sguardo che punta alla Corsica e arriva fino a Genova. Nel sogno dell’anarchia e di una rivoluzione popolare non violenta, Cristiano De André ha dato ritmo nuovo e più aggressivo agli ideali che suo padre mezzo secolo fa aveva messo in rima e cantato. «Vorrei essere la colonna sonora di un secondo Sessantotto. Di quella rivoluzione che ora è di nuovo urgente: mi piacerebbe che a darle l’anima fossero le nuove generazioni, quei giovani che non erano nati quando Faber scriveva Storia di un impiegato». Si comincia dal palco, con un tour (prima tappa il 5 luglio a Roma) che ripropone in chiave rock e in video i brani dell’album più politico e più tormentato di Faber. Uscì nel 1973 e qualcuno lo etichettò come la colonna sonora degli Anni di piombo. «All’epoca è stato considerato al contrario di quello che è davvero: un trattato anarchico ispirato al pacifismo. Il messaggio di Faber è chiaro: non ci sono poteri buoni, chiunque fa la lotta per prendere il controllo diventa potere a sua volta. E infatti il bombarolo di cui parla Fabrizio era uno che aveva solo sete di potere. L’album resta la tragicommedia di chi crede di combattere l’establishment e invece ambisce a farne parte».Perché riproporre proprio «Storia di un impiegato»? C’è una ragione legata alla situazione politica attuale?«A 50 anni dal Sessantotto mi sembrava la scelta giusta. Non ci poteva essere un anno migliore. Anche perché il sogno di allora rimane vivo ancora oggi, chi ha perso quella battaglia non vuol dire che abbia abbandonato il sogno. Per questo vorrei portare ai miei concerti chi allora combatteva l’arroganza del potere».Fabrizio le aveva chiesto di tenere viva la sua opera musicale e letteraria. Intendeva anche questo, cioè continuare l’impegno su quell’ideale?«Certo. E io sono avvantaggiato: il suo sogno è anche il mio. È esattamente lo stesso, anche se ognuno ha un modo diverso di viverlo e di presentarlo. Per questo presenterò i suoi brani con i miei arrangiamenti. Cambia la presentazione ma la voglia di essere utopici resiste».Di quell’album fanno parte brani che sono muri portanti del castello musicale di Faber. Come stati adattati brani tipo «Il bombarolo» o «Canzone del maggio»?«La sfida è riprendere la grande opera fatta allora dal grande Nicola Piovani e portarla da un’altra parte. Diciamo che sarà tutto più rock ed elettronico. Direi senza troppi freni». Suo padre avrebbe gradito?«Lui mi ha consigliato di modificare le sue opere a modo mio. Me l’ha proprio chiesto, credeva nelle mie capacità musicali. Mio padre era molto curioso di sperimentare, sono certo che su questa operazione mi avrebbe lasciato carta bianca».Forse non gliel’ha mai detto in faccia, ma Faber era molto orgoglioso del figlio musicista. Agli amici dopo un concerto disse: «Lui sì che è bravo, è molto più bravo di me». Come le trasmetteva tutta questa stima?«Per lui era difficile dire “ti voglio bene” o mostrarsi troppo gentile nei confronti dei figli. Preferiva stimolare più che fare complimenti. Aveva grande rispetto e io credo di aver onorato la fiducia che ha riposto in me. Quando ho iniziato a studiare violino lui non sembrava troppo contento, ma gli avevo promesso che un giorno gli avrei suonato Zirichiltaggia meglio di Lucio Fabbri. E credo di esserci riuscito, rendendolo molto felice».Per l’album «Storia di un impiegato» Fabrizio venne guardato con sospetto, tenuto sotto osservazione dalla Polizia, come se fosse un ispiratore della lotta armata. Lui intimamente come la viveva? Sentiva un certo senso di colpa oppure si considerava solo un precursore?«Nessun senso di colpa, ovvio. Perché nel suo pensiero la violenza non era contemplata. Il conflitto era al di fuori del suo trattato anarchico. Lo ripeto: nel racconto dell’impiegato bombarolo fa vedere quanto la violenza sia sbagliata».Oggi Faber sarebbe grillino?«Era molto amico di Beppe e forse gli sarebbe stato vicino. Di certo, più vicino a Grillo che al Pd, colpevole di aver distrutto la sinistra italiana, trasformandola in una specie di mercato del potere. Oggi c’è un gruppo di giovani che crede di migliorare le cose e di fare un po’ di pulizia: sicuramente sarebbe stato dalla loro parte».