il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2018
Adriano Panatta ricorda Paolo Villaggio: «Per lui ho perso un torneo: lo guardavo e ridevo sempre»
È morto Lucio Dalla. La voce correva lungo la banchina a Roma Termini e tutte le persone si avvicinavano a Paolo per parlare con lui. Parlavano di Dalla, di come era morto e Paolo con perizia e cura cercava di essere molto preciso nelle risposte, aveva una parola di conforto per tutti quelli che sembravano disperati per quella morte improvvisa del suo amico Lucio. Ma insieme era raggiante nel ricordarlo.
Era chiaro che la morte degli altri gli dava un piacere intimo: era toccato ancora unavolta a qualcun altro.
Stavo per salire sul treno insieme a Paolo Villaggio per andare a Pietrasanta a trovare Adriano Panatta, e tutte le persone che incontravamo giovani o vecchie, lo salutavano e si fermavano per abbracciarlo come fosse un sopravvissuto dei bei tempi. Era uno di loro, era chiaro.
Una volta sul treno mi disse lapidario e incazzato: “La morte è una gran seccatura”. Ecco la tipica battuta di Paolo, non potevi non ridere, insieme cinico e glaciale. “La sua comicità che metteva insieme il cinismo romano e l’aplomb anglosassone – mi dice ora Adriano– era il modo di Paolo di stare al mondo”. Oggi, a un anno dalla sua morte ci ritroviamo con Panatta a parlare del suo amico di tennis e di vita.
Ma eravate amici per via del tennis, gli domando. Adriano mi ricorda la scena del film, il tentativo di battuta, il continuo mancato impatto tra racchetta e pallina del ragionier Fantozzi, e poi la batosta micidiale in testa, tutto in un campo di periferia, tra la nebbia, l’alba. “No ci eravamo incontrati a Cortina, e poi ogni tanto veniva a vedere le partite. Ma io speravo che non venisse, mi distraeva: una volta lui e Tognazzi mi hanno fatto perdere il torneo di Montecarlo, io in campo e loro sugli spalti, irresistibili con le loro smorfie, non riuscivo a stare in partita. Paolo era bello sentirlo parlare, cultura immensa mai esibita, solo una messa in scena continua inarrestabile”.
Adriano mi racconta anche del periodo in cui Paolo era sempre in giro tutta la notte, non trovava pace, sempre a caccia di umanità varia. “Era un cultore dell’essere umano, curioso della vita degli altri, voleva conoscere per poter dire la sua, prima sintetizzare il senso della vita con la sua battuta cinica secca e tagliente e mai scontata”. Adriano e Paolo erano, così amici senza cerimonie e fronzoli. Si cercavano, si parlavano e si ammiravano.
“Villaggio era un provocatore intelligente, non sapevi mai se diceva la verità o semplicemente ti stava prendendo in giro”, spiega l’amico. “Probabilmente tutte e due le cose insieme. Viaggiava su parabole tutte sue che raramente toccavano gli altri”. Un esempio? “Quella notte a Pietrasanta dopo essere stato sul palco, con il suo spettacolo rutilante di dritti e rovesci precisi a delimitare il campo del racconto, Paolo venne ricoperto di applausi. Un racconto su tutti, il colpo perfetto per finire il game da vincente. O il giorno che a Genova, negli anni 70, nel cinemino d’essai, il proiezionista in lacrime confessava al pubblico ormai arrovellato nel dibattito, che aveva fatto partire il film all’incontrario, dalla parola fine. Il pubblico attonito e il critico militante che aveva difeso l’ardire di Pudovkin di far partire La madre dalla fine, la poesia di quell’atto e la triste realtà di un errore”.
Aveva creato un’angoscia pazzesca sul pubblico. Inizio della fine di un epoca che arrivata fino ad oggi. Ecco quei dibattiti inutili e dannosi alla psiche umana gli avevano fatto gridare “corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”.
Poi nella serata di bevute e cibo, tutti insieme Paolo cominciò ad occuparsi del nostro amico Piero, malato, bipolare, triste e perso nei meandri dei suoi pensieri. Cominciò a parlare di analisi e medicine con perizia e conoscenza del problema. Infine uno scarto improvviso, volle sapere dove era l’origine di quel malessere, si fece raccontare la vita di Piero e partecipò al dolore di quest’ultimo che soffriva per un amore mai veramente ricambiato. Davanti all’impossibilità di dare una risposta, senza farsene accorgere sparì nella notte. Il giorno dopo tornammo a Roma, Adriano alla guida, Paolo continuò ad occuparsi della storia d’amore del nostro amico, poi semplicemente cambiò discorso e ci fece una lezione dotta sulla recitazione: meglio Chaplin o Buster Keaton? Impossibile la risposta. Poi un pomeriggio a casa sua nel suo studio, mi disse che non riusciva più a dormire, allora si alzava e leggeva sempre lo stesso libro: La metamorfosi. E parlava di libri, dei suoi libri, e lì capii la sua ossessione: la scrittura. Paolo era un grande scrittore ma nessuno lo riconosceva. Allora glielo dissi: “I tuoi libri sono capolavori”. Sorrise e se ne andò.