il Giornale, 4 luglio 2018
David Lynch si racconta ma anche per lui il suo genio è un mistero
«Volevamo essere definitivi, ma alla fine questa è soltanto un’occhiata»: così concludono la loro introduzione a Room to Dream (Canongate Books, euro 24,72, pagg. 580) David Lynch e Kristine McKenna. Anche se il format è davvero particolare, anche se il libro è in fondo scritto a quattro mani, si tratta di una autobiografia dove l’apporto di Lynch è fondamentale: non solo perché per la prima volta, come lui stesso dichiara, ha provato a mettere sul serio al posto giusto date, nomi, fatti e persone. Ma perché la sua voce racconta, e parecchio, di questi fatti con una narrativa adorabile: leggero, ficcante, intimo e divertente, come se stesse parlando con un paio di amici al bar. Se l’obiettivo era però quello di mettere la parola «Fine» alla questione autobiografica, ammettiamo insieme ai due autori che forse nemmeno lo stesso Lynch è in grado di «risolversi» appieno nel farsi il ritratto e che il suo talento rimane un arcano persino per lui.
La McKenna ha intervistato oltre cento colleghi del regista, amici, familiari, che le hanno messo su uno dei due piatti della bilancia tutto il repertorio immaginabile. Il rapporto di David con gli eccezionali genitori: «Ci facevano fare cose pazzesche, che non sarebbero permesse nemmeno oggi», spiega John Lynch. Compreso produrre magliette personalizzate per tutto il vicinato. Con la scuola: Lynch era un ribelle, ovviamente beveva alle feste e scappava di casa, ma non per il gusto di farlo. È che tutto per lui era troppo «normale», comprese le cene in casa e la vita da boy scout (che comunque provò): «Il tuo cibo è troppo pulito!», diceva alla madre. Con la pittura: visto quanti quadri produceva se poteva starsene tranquillo in camera, i suoi conclusero che la scuola era solo una distrazione. Con i set: da Eraserhead a Mulholland Drive, ne esce un Lynch prima di tutto bellissimo (lo dicono tutte, attrici e produttrici), generoso, talent scout e gentile, che quando per la prima volta vede Sheryl Lee Laura Palmer in Twin Peaks – seduta sulle mani perché per l’emozione non riusciva a tenerle ferme, la consola così: «Come ti sentiresti al pensiero di essere immersa nella pittura, avvolta nella plastica e finire nell’acqua gelata?».
Fin qui quel che dicono gli altri. Il format di questo libro prevede però che per ogni capitolo narrato dagli altri sull’altro piatto della bilancia ci sia «la versione di Lynch»: pezzo per pezzo, il regista di Blue Velvet smonta l’immagine che il mondo ha di lui e la rimonta secondo canoni imperfetti e sporchi, cioè tipicamente umani, ma anche eccessivi e provocatori, cioè tipicamente Lynch. Sentenze indiscutibili su amore, vecchiaia, morte e destino («Le persone hanno successo e falliscono e, se dopo essere precipitati tornano a galla, ecco che conquistano il potere») e ricordi da cinéphile, come quando andò a trovare Fellini in ospedale nel 1993 a Roma, mentre era lì per girare uno spot Barilla. E poi conclusioni sulle sue opere, più enigmatiche delle opere stesse: «Il successo di massa che ha avuto Twin Peaks non significa niente per me», esplode alla fine del capitolo dedicato alla serie. «Alla fine la gente ha smesso di amarlo, ma almeno è finita bene, perché è stato quando è arrivata la Stanza rossa. Non posso dire che cosa sia esattamente, ma ricordo quando mi è venuta l’idea e quanto ero eccitato. Prendete il pilot, prendete la Stanza rossa e guardate dove portano, metteteli insieme e avrete il vero Twin Peaks. Una cosa bella, delicata, che è più di quel che sembra e che lascia mistero nell’aria».
Affermazioni così ambigue sono normali per Lynch e possono spiegare perché, mentre giura che non girerà mai più un film, gira invece la voce che stia vagliando progetti per Netflix. Ma ci sono parti del libro – sicuramente quelle più legate alla rabbia, alla perdita e alla benedizione di aver trovato la meditazione – in cui Lynch rivela ancor meglio il suo sguardo sul mondo: irrisolto, in lotta perpetua con i mostri violenti dell’inconscio e con un intuito cannibale. Ma vivo. E pronto a divertirsi e a commuoversi. Come quando racconta di Dune: «Seppi che Dino De Laurentiis voleva incontrarmi a proposito di una cosa chiamata Dune. Credevo che dicesse June, perché Dune non l’avevo mai sentito nominare. Ma i miei amici tutti a dirmi: Oddio, è il libro di fantascienza numero uno mai scritto. E così ho pensato: Va bene, incontrerò Dino. E mi venne davvero mal di testa al solo pensiero». O come quando ricorda il documentario sull’India: «Avevo sempre pensato che io, David, non sarei mai andato in India. E che per nessuna ragione al mondo mi sarei bagnato nelle acque del Gange. E invece non solo sono in India, ma nel sangam. E non solo nel sangam, ma immerso fino al collo, e in un tempo dell’eternità in cui le ceneri di Maharishi Mahesh Yogi sono nell’acqua intorno a me. È qualcosa».