Il Messaggero, 4 luglio 2018
«Io, figlia del re del noir, adoro i romanzi rosa». Intervista a Cecilia Scerbanenco
Giorgio Scerbanenco è il primo maestro del noir italiano, un narratore di razza che non ha nulla da invidiare (stando a Oreste del Buono) alla penna di Georges Simenon. La sua riscoperta, iniziata almeno negli anni Novanta, prosegue in questi giorni con la pubblicazione di un romanzo inedito, L’isola degli idealisti, e della prima biografia dell’autore, scritta dalla figlia Cecilia, Il fabbricante di storie. Domani all’Università Iulm, nell’ambito della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, ci sarà un grande evento dedicato a lui, con proiezioni di film – La morte risale a ieri sera di Duccio Tessari e Milano Calibro 9 di Ferdinando Di Leo – letture di Sveva Casati Modignani, Piero Colaprico, Maurizio De Giovanni, Massimo Picozzi; infine un concerto di Morgan. Successivamente, La nave di Teseo ripubblicherà tutte le opere di questo autore nato a Kiev (da padre ucraino e madre romana) nel 1911 e morto a Milano nel 1969.
Signora Cecilia Scerbanenco, nell’introduzione a L’isola degli idealisti, lei scrive che potrebbero spuntare altri inediti...
«Ho scoperto della sua esistenza da un documento desecretato in Svizzera, dove mio padre si rifugiò nel 43. Poiché per essere accolto doveva spiegare quale lavoro facesse, elencò i titoli dei romanzi che aveva pubblicato e di quelli che erano stati consegnati alla Mondadori; con la guerra e il conseguente caos i dattiloscritti furono perduti. Questo, invece, era stato conservato nella casa della moglie, Teresa Bandini. Anche Il cavallo venduto fu ritrovato nella casa della donna con cui stava allora».
Quali sono i testi mancanti?
«C’è per esempio un
Viaggio in Persia di cui non sappiamo nulla; e poi La notte buia, che ha un titolo molto intrigante».
Lei scrive che questo romanzo segna il passaggio dai gialli classici al noir, e che lo stile si fa più dinamico e incisivo, da crime novel.
«Sì è un romanzo molto particolare, in realtà non c’è (o quasi) un crimine, si basa piuttosto sull’analisi psicologica dei personaggi».
Un romanzo psicologico di altri tempi?
«Non c’è la classica struttura del crimine, del puzzle da ricostruire, come nelle storie di Arthur Jelling (primo investigatore di Scerbanenco, ndr), però ha già uno spirito un po’ cinico, disincantato e disilluso; tanto che alla fine la giustizia non viene ristabilita».
Cosa ricorda di suo padre?
«Mi vengono in mente tante immagini: le feste a Lignano Sabbiadoro, certi ristoranti a Parigi, la pasticceria Ricci a Milano che all’epoca era una sala da té...»
Quando è morto lei aveva cinque anni.
«Sì, abitavamo ancora in quella casa di piazza della Repubblica, ero appena tornata da scuola e lui non c’era più. Mi dissero che era partito per lavoro, cosa che faceva spesso. Ma dentro di me avevo capito. Mi dissero la verità soltanto due o tre anni dopo».
Com’era suo padre?
«Molto presente, attento... non era certo il padre materno di adesso, era l’uomo di casa. Ci è sempre mancato molto, era una presenza totalizzante, quando è morto ha lasciato un vuoto enorme. Mia madre non si è mai ripresa dalla perdita».
Anche perché era la compagna di un uomo sposato, quando non c’era il divorzio.
«Sì, mio padre si sposò nel 31 ma nel 39 era già separato e, prima di mia madre, aveva avuto altre due compagne. Non fu facile».
Suo padre si piccava se qualcuno non lo considerava madrelingua. Non era come Conrad.
«Certo che se la prendeva: lui era madrelingua. Non siamo mai riusciti a capire se parlasse ancora ucraino. In fondo a sei mesi era già in Italia, è tornato solo per l’estate a Kiev, fino al 1914-15...»
Molti scrittori oggi si ispirano a lui.
«Alcuni prendono a modello Duca Lamberti. Allora non esisteva questa figura di consulente della polizia, di medico radiato dall’albo. Non era né un poliziotto né un investigatore privato».
Ora La nave di Teseo ripubblicherà tutte le opere di suo padre.
«Sì ci sono questi bellissimi romanzi degli anni Quaranta e Cinquanta che furono ignorati a lungo; alcuni li ritenevano troppo rosa, o datati, invece adesso ci si rende conto del loro valore letterario».
Il tema predominante dei suoi libri era l’amore, il rapporto tra illusione e realtà.
«Sì, è quello che diceva lui. A un certo punto ha raccontato di avere avuto l’urgenza di scrivere quando udì prima una donna raccontare di una relazione d’amore perfetta e serena, e poi il suo uomo dire che voleva lasciarla. Crediamo di vedere la realtà ma siamo accecati dalle illusioni; i suoi romanzi nascevano da qui».
Lei ha mai pensato di darsi alla letteratura noir?
«No, il mio sogno sarebbe il romanzo rosa storico, traduco tanti libri da edicola per Mondadori. Amanda Scott, per esempio, è un’autrice divertente».
Perché c’è sempre tanta diffidenza nei confronti della letteratura di genere?
«Non lo so, ma credo sia sbagliato. Molte di queste autrici sanno ricostruire la psicologia, coinvolgere il lettore. Di cos’altro abbiamo bisogno?»