La Stampa, 4 luglio 2018
Datemi un visore e mi reincarno. La nuova frontiera della realtà virtuale
Che cosa hanno in comune un laboratorio sulle nuove tecnologie e il divano dell’analista? «Molto velocemente le tecnologie, specialmente quelle visuali e della comunicazione, diventano linguaggi e agiscono sulla psicologia, determinano i nostri comportamenti, relazioni ed esperienze, la percezione e la comprensione dell’identità. Nostra e altrui.»
Daniel Landau, 45 anni, è un artista multimediale e un ricercatore al Media Lab dell’Università di Aalto a Helsinki. Per il suo dottorato sta esplorando il tema dell’empatia, del sé e dell’altro, attraverso lo strumento, molto sperimentale, dell’incarnazione virtuale. Se la realtà virtuale è l’illusione di essere in un altro luogo, il «virtual embodiment» (o «VE») ha come obiettivo l’immedesimazione in qualcun altro.
Percezione trasformata
Che la convinzione di essere nel corpo di un altro influenzi la nostra percezione è noto da quando Botvinick e Cohen, nel famoso esperimento del 1998 dell’illusione della mano di gomma, dimostrarono che in appena 30 secondi il cervello acquisisce come reali le sensazioni di un arto finto. Quando poi la realtà virtuale è diventata uno strumento di ricerca, è stato naturale estendere il test dalla mano al resto del corpo. Dal 2010 al 2015 due ricercatori specializzati nella realtà virtuale, Slater e Sanchez-Vives, attivi a Barcellona, hanno quindi condotto uno studio in collaborazione con il filosofo tedesco Metzinger e il neuroscienziato svizzero Blanke: in questo caso la realtà virtuale immersiva è stata utilizzata per monitorare la convinzione di alcuni individui di possedere davvero i corpi che incarnavano in un ambiente simulato. I risultati del progetto «Virtual embodiment and robotic re-embodiment» hanno provato che, quando ci si reincarna virtualmente nel corpo di un bambino, il senso delle dimensioni si altera. E, quando si vestono i panni virtuali di un afro-americano davanti alle percussioni, si raggiungono livelli superiori di ritmo. Come dire: credere di essere un altro non solo influenza la percezione, ma il modo di pensare e quindi di agire. In un altro esperimento del 2015, «Conversazioni tra sé e sé come Sigmund Freud», Slater, insieme con i ricercatori Osimo, Pizzaro e Spanlang, avevano simulato, sempre grazie alla realtà virtuale, una seduta analitica in cui i soggetti hanno impersonato prima sé stessi e poi Freud, dimostrandosi più efficaci nel fornirsi una consulenza psicologica quando pensavano di essere il fondatore della psicoanalisi.
Questioni filosofiche
L’israeliano Landau, che lavora nell’intersezione tra tecnologia, scienze cognitive e psicologia, utilizza proprio queste discipline per portare all’attenzione una serie di questioni pratiche e filosofiche. «Dopo aver osservato i risultati di vari studi, mi sono chiesto - da artista - quali interrogativi sollevavano. Ciò che m’interessa è come la realtà virtuale possa intervenire sulla struttura sociale». A differenza degli scienziati lui aggiunge l’elemento narrativo. Come nell’installazione «Visitors», realizzata per la mostra «I to Eye», inaugurata all’Israel Museum di Gerusalemme. In un salotto sono fusi gli ambienti domestici di due famiglie realmente esistenti: da un lato mobili, narghilè e altri oggetti d’uso quotidiano di una famiglia araba del villaggio di Husan in Cisgiordania e dall’altro la menorah, i libri e le foto dei membri di una famiglia ebraica dell’insediamento di Betar Illit.
Indossando gli occhiali per la realtà virtuale, il visitatore si immerge in una casa e nell’altra, incontrando le famiglie che si esprimono sui temi che li accomunano e li dividono. Scopo dell’installazione è esaminare le differenze tra le famiglie, immaginare un incontro e superare il confine tra reale e virtuale. «Non si tratta del conflitto ebraico-islamico. Il tema è piuttosto quello dell’arabo ebreo. E la mia ricerca non è finita il giorno dell’inaugurazione della mostra. Quello è stato il vero inizio». L’obiettivo di Landau è usare l’installazione per creare un contatto virtuale tra le famiglie e, lavorando sull’empatia come farebbe un analista, far sì che i membri acconsentano a incontrarsi e confrontarsi nel mondo reale.