Corriere della Sera, 4 luglio 2018
Cosa ci dicono le prime misure prese dal governo Conte
Un governo si giudica per quel che fa, non per quel che dichiara. C’è da rallegrarsi per le prime mosse legislative e amministrative del nuovo governo?
Le riunioni dei consigli dei ministri sono state poche e brevi. Hanno prodotto un primo decreto legge sugli obblighi di fatturazione per le cessioni di carburante (che contiene solo il rinvio di un termine all’inizio dell’anno prossimo) e il tanto atteso decreto legge «dignità».
Quest’ultimo è stato preceduto da una fase di «ascolto»: i due azionisti del governo sono andati ai vari congressi di categoria o hanno ricevuto delegazioni delle più varie corporazioni sindacali, commercianti, agricoltori, artigiani, consumatori, «rider». Il risultato è molto simile a tanti provvedimenti della storia repubblicana: un decreto legge «omnibus» su lavoro, delocalizzazione, ludopatia, semi-condoni fiscali, tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti, e molto altro. La maggior parte dei temi è estranea ai programmi enunciati dall’esecutivo sia nel «contratto per il governo del cambiamento», sia nelle dichiarazioni programmatiche esposte in Parlamento.
Più che entrare nel merito di ciascuna parte (il testo è ancora suscettibile di modifiche), è utile esaminare la direzione presa dal governo e il metodo seguito. Il governo e, in particolare, il capo politico del M5S, ha prima preparato un testo facendo lo «slalom» tra le più varie richieste, poi ha fatto molte marce indietro.
Infine ha preparato una «versione leggera», una volta raccolte le reazioni dei controinteressati. Così si è proceduto su «redditometro», «spesometro» e «split payment», sui contratti a tempo determinato e di somministrazione, sul divieto di pubblicità per giochi e scommesse (ad esempio, per quest’ultimo, dopo aver ascoltato gestori televisivi, editori e società di calcio, sono stati fatti salvi i contratti già stipulati). Considerata la pioggia di critiche da cui è stato sommerso il testo che è circolato dopo il Consiglio dei ministri, l’obiettivo non è stato raggiunto.
Un indirizzo simile ha seguito il ministro dell’istruzione: «basta scossoni», ha dichiarato, e ha raggiunto un accordo sindacale per eliminare – anche senza abrogare la legge – la cosiddetta chiamata diretta dei docenti.
Anche nella scelta dei propri collaboratori, i ministri del nuovo governo hanno rinnovato un’antica prassi, ricorrendo in larga misura a sperimentati consiglieri di Stato o avvocati dello Stato per coprire i posti di capi di gabinetto e di capi di uffici legislativi.
Insomma, i populisti sono in generale anticorporativi e anti-élite. Invece, in Italia adottano il metodo del «government by negotiation»: hanno sùbito accolto le richieste dei più diversi settori sindacali, dimenticando i programmi enunciati, e poi hanno fatto misurate marce indietro, su richiesta per lo più della Confindustria.
Non condivido le critiche di chi classifica questo corporativismo in salsa populista, in modo sprezzante, «populismo all’amatriciana». Penso, invece, che vada analizzato il metodo che le nuove forze politiche stanno seguendo e che ne vadano individuate le cause. In primo luogo, il criterio del negoziato è proprio delle democrazie consociative. Ed è probabile che sulle forze di governo pesi il fatto di rappresentare poco più di un terzo dell’elettorato e, comunque, solo una forte minoranza dei votanti. Quindi, il governo cerca consensi nelle più varie categorie (ma senza riuscirci, a giudicare dalle molte critiche al decreto legge «dignità»). In secondo luogo, è importante che due forze unite solo dal populismo si affrettino a stabilire radici proprio nelle corporazioni sindacali e di categoria che avrebbero potuto temere di essere scalzate dal populismo: in altre parole, i primi provvedimenti sembrano diretti a spiegare alle corporazioni che non hanno ragioni per temere, che il popolo dei populisti è composto anche (e specialmente) da loro. Infine, i proclami di anti-elitismo sono abbandonati facendo ricorso a quella che è per eccellenza una élite, il corpo dei consiglieri di Stato.
Dobbiamo per questo essere rassicurati, e dormire sonni tranquilli? Non lo credo, per tre motivi. Innanzitutto, le concessioni a questo e a quello hanno un costo. Pare che esso sia stato minimizzato nell’ultima versione del decreto legge «dignità». Ma resta il fatto che non possiamo continuare a scaricare sulle future generazioni il costo delle nostre debolezze.
In secondo luogo, del «pacchetto» approvato fanno parte anche le misure anti-delocalizzazione (richiedono la restituzione dei benefici fiscali applicati nei periodi di imposta precedente alle imprese che portano all’estero, fuori dell’Unione europea, impianti e produzioni) che non solo spaventano gli investitori stranieri, ma rappresentano un pessimo segnale di chiusura nazionalistica di un Paese la cui forza sta nell’apertura verso l’estero (si pensi al ruolo delle esportazioni e del turismo internazionale).
L’ultimo motivo di preoccupazione sta nella voce grossa del comandante Salvini («lo Stato fa lo Stato»), con i suoi sanguinosi quanto inutili proclami, che possono rallentare, non arginare flussi migratori che dipendono dalle pressioni demografiche e che andrebbero affrontati nelle sedi globali idonee (secondo un sondaggio Gallup, nel mondo vi sono più di 700 milioni di adulti che vorrebbero trasferirsi permanentemente in altro Paese, il 23 per cento nell’Unione europea).
I primi provvedimenti del governo, in conclusione, non suscitano allarme, riprendono anzi un corso antico, di concedere un po’ a tutti, accontentando alcuni e scontentando molti, salvo presentare il conto a qualcun altro, tra qualche anno.