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 2018  giugno 29 Venerdì calendario

Vincenzo Pipino, l’uomo che ha fatto del furto un’opera d’arte

Le vedi quelle palazzine dall’altra parte del canale? Lì ci abitano i siori di Venezia: i Brandolini d’Adda, i Persico, i Donà delle Rose, gli Avogadro degli Azzoni. Tutti li ho castigati, tutti. Io stavo da questa parte, alla Giudecca, dove vivono operai e morti di fame: guardavo le loro case con il binocolo, le immaginavo piene d’oro, di quadri d’autore, di mobili d’epoca. E mi chiedevo: ma questi, come li hanno fatti i soldi? Mi sono messo a leggere e ho capito che tutte le ricchezze provengono da un ladrocinio. Non sempre certo, ma molto spesso. E allora ho cominciato a rubare anch’io. Ai ricchi, certo, senza però mai torcere un capello a nessuno e rispettando le opere d’arte che sono la mia passione più grande. Perché rubare ai ricchi non è peccato, di questo sono sicuro”.  
Vincenzo Pipino, detto “Encio”, adesso ha 75 anni, un terzo dei quali passati dietro le sbarre: “Ma sempre per brevi periodi” prova a giustificarsi, “tranne quei sei anni di fila a Rebibbia dove ho conosciuto un sacco di nomi grossi, gli Strangio, i fratelli Graviano, e Vincenzo Scarantino, il falso pentito della strage di via D’Amelio. Ora che ci penso, mi chiamarono pure a testimoniare al processo: dissi che quel ragazzo non c’entrava nulla con la mafia. E avevo ragione. Ho conosciuto anche Toni Negri, con lui siamo diventati amici. Mi ha persino convinto a scrivere un libro con la mia storia”.
Seduto al tavolo di un bar, insieme all’inseparabile fratello Alfredo – “lui fa il mago, è bravissimo, fa sparire un sacco di roba, praticamente fa il mio lavoro, solo che lui poi la roba la fa riapparire...” – Pipino prova a fare il conto di tutto quello che ha rubato nella sua vita. Qualche tonnellata d’oro, centinaia di carati di brillanti, smeraldi e rubini, un’infinità di opere d’arte di enorme valore, un tesoro da fare invidia ad Alì Babà. “Encio” dice di non voler esagerare, ma di colpi in sessant’anni di carriera ne avrà messi a segno almeno tremila. “L’ultimo? E chi se lo ricorda, sono passati tanti anni, ormai sono vecchio” dice accendendosi l’ennesima sigaretta che fuma con il bocchino ("mia moglie mi sgrida, ma almeno così fa meno male"). Un sussulto quando al pontile del vaporetto incrocia una turista americana con un anello extralarge al dito e un Cartier d’oro al polso: “Questa qui ha addosso almeno 300 mila euro di roba, l’è pazza. Meno male che sono in pensione, altrimenti sai come la castigavo? Mezz’oretta al massimo e nella sua stanza d’albergo non trovava più niente. Scherzo, eh, sono fuori dal giro ormai. Però che vuoi farci, l’occhio clinico rimane sempre”.
Una vita da film, quella del “ladro gentiluomo”, come ama farsi chiamare. Non è un caso, dunque, che la Century Fox abbia deciso di comprare i diritti del suo libro: presto la storia di Vincenzo Pipino diventerà un kolossal di Hollywood: “La sceneggiatura la sta scrivendo Becky Johnston, quello di Sette anni in Tibetcon Brad Pitt. Mi hanno detto che la mia parte potrebbe farla nientemeno che Dustin Hoffman. Ma ci pensi? Io con la faccia di Dustin Hoffman, il mio attore preferito. Peccato che la mia povera mamma non possa vederlo, sarebbe così fiera...”. E dire che di capelli bianchi ai suoi genitori “Encio” ne avrà fatti venire tanti quand’era bambino: “A me la vita l’ha cambiata un torsolo di mela, non sto scherzando. Avevo appena sei anni, andavo in prima elementare. Il capoclasse, rampollo di una famiglia bene di Venezia, veniva a scuola con un cestino zeppo di roba da mangiare. Noi poveracci morivamo di fame e una volta chiesi a quel bambino se poteva allungarmi un pezzo della sua frutta. Lui lo lanciò per terra: “Se vuoi, prendilo...”. Un’umiliazione, davanti a tutti. Non ci vidi più, lo scaraventai sul pavimento e si morsicò la lingua. Sangue, urla, strepiti: niente, mi cacciarono dalla classe e da quel giorno la strada diventò la mia scuola”.
Il primo furto a otto anni, un bidone di latte da cinquanta chili che fece rotolare fino a casa: “Mio padre mi massacrò di botte, ma eravamo appena usciti dalla guerra, non avevamo nemmeno gli occhi per piangere. Vivevamo a Calle Malatin, un nome che è già tutto un programma. Così mia madre finì per perdonarmi e anzi, da quel giorno, cominciai a portare nel mio rione tutto quello che riuscivo a rubare dai forni e dai negozi di alimentari. Fino a quando fui beccato dalla polizia. Ero troppo piccolo per andare in galera, ma che quello fosse il mio destino era chiaro ormai a tutti”.
Il primo furto vero a 14 anni, al Lido, la spiaggia dei miliardari. Un americano che lascia incustodito il suo portafogli nella cabina e il gioco è fatto: “Io volevo solo comprarmi un paio di jeans, quello aveva un rotolone di dollari, potevo forse lasciarglieli?”. Passa il tempo e Vincenzo decide di fare il salto di qualità: “Con Gino, il mio compare, decido di mettere su una batteria, una banda di ladri insomma. Chiamo Fabio, il Berto, Popè, Cippo e qualche altro e illustro il piano: entriamo nelle case dei ricchi, portiamo via tutto quello che possiamo, l’oro ce lo rivendiamo ma i quadri glieli restituiamo. In cambio di un contributo, ovviamente. Per carità, non chiamarlo ricatto perché questo, piuttosto, è un atto d’amore verso l’arte. Come quella volta a Palazzo Giustiniani Recanati, quando rubai il Canaletto, il colpo della mia vita”.  
Quando racconta del Fonteghetto de la farina, la tela trafugata nella dimora del re dell’acciaio Alberto Falck, gli occhi di Pipino sembrano brillare: “Capirai, è sempre stata la tela dei miei sogni. Raffigura il piccolo magazzino che sorgeva sul molo di San Marco, con quei colori tipici di Venezia che solo Canaletto sapeva riprodurre. Ma ti pare che un capolavoro del genere doveva stare sepolto in uno studiolo buio di una casa privata? Così ho messo a punto il piano, sono entrato con la banda da una calle laterale e mi sono ritrovato in un vero e proprio museo. Quell’uomo possedeva opere di Masaccio, Tintoretto, Simone Martini. Roba da centinaia di miliardi. Pensavo che in casa non ci fosse nessuno, invece Falck era in camera da letto a lavorare. Il tempo di prendere ilFonteghetto e siamo scappati dal portone principale. Il giorno dopo stavamo in prima pagina su tutti i giornali. Che orgoglio”.
"Encio” porta il quadro a Roma, a casa di un amico. Ma un capolavoro del genere – valore 20 miliardi di lire – non si può certo piazzare facilmente: “È catalogato, chi vuoi che lo compri? Il giorno dopo starebbe in galera per ricettazione”. Meglio convincere il proprietario a riprenderselo in cambio delle spese di trasporto, come le chiama lui: “Telefonai a Falck e lui tentò di fare la voce grossa. Alla fine trovammo l’accordo e glielo feci ritrovare. Mi costò sette mesi di carcere quel colpo, ma all’uscita la moglie dell’imprenditore mi volle ringraziare con una cassa di vini pregiati per aver trattato bene il quadro e, soprattutto, per non aver fatto spaventare il marito durante il furto. Qualche anno dopo il Fonteghetto fu esposto in una mostra: finalmente tutti i veneziani poterono ammirarlo”.
"Encio” potrebbe raccontare per ore. In fin dei conti è stato lui il primo nella storia a violare il Palazzo Ducale – “un furto su commissione da parte del boss della mafia del Brenta, Felice Maniero, una Madonna col Bambino del XV secolo della scuola di Alvise Vivarini. Non presi una lira, ma ottenni dal boss la parola che l’opera non sarebbe mai stata danneggiata” – e poi due colpi alla Peggy Guggenheim Collection, una “visita” al Museo Correr e chissà quant’altro. Senza contare le gioiellerie, vero core business della banda: “Un bel buco dall’appartamento accanto, noi a Venezia lo chiamiamo bava, si sceglieva l’ora migliore per entrare e si portava via tutto quello che si poteva. Tutto, tranne gli oggetti in riparazione, perché quelli erano dei clienti e sarebbe stato uno sgarbo per loro”.
Anni di trasferte in Svizzera, in Germania, un paio di incidenti di percorso – “a Düsseldorf ci presero in flagrante dentro una gioielleria, ma fu colpa di una soffiata” – furti persino ai danni di vip come Charlie Chaplin e Cary Grant: “Era ubriaco fradicio, lo seguii nella sua camera d’albergo e fu un gioco da ragazzi portargli via portafogli e orologio d’oro. Era il protagonista di Caccia al ladro, più che un colpo fu una sfida con me stesso”.
Dopo una vita del genere, uno come Pipino è diventato miliardario? “Ma quando mai, vivo con una piccola pensione e per fortuna c’è anche quella di mia moglie. Ho sperperato tutto, avevo anche questo brutto vizio del gioco, però mi sono divertito. I soldi o li rubi o li sposi: io mi sono sposato per amore, i soldi li ho rubati. Alla fine di questo gioco, cosa mi è rimasto? Un affettuoso, intimo “nulla”. O meglio, non proprio nulla. Mi restano i ricordi, le emozioni, le avventure. Ho vissuto in modo sbagliato, lo dico sempre ai miei nipoti, ma mi sento in pace con la mia coscienza. Non ho mai fatto del male a nessuno, anche se non per questo posso essere un esempio. Ma insomma, c’è di peggio no?”.