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 2018  giugno 29 Venerdì calendario

Amori, veleni e battaglie di Rebecca West, una scrittrice inquieta

Niente doveva incrinare il silenzio nella grande casa finché non si sentiva il suono del campanello. Non c’era un orario fisso, ma di solito tintinnava tra le 10 e le 11, annunciando che Rebecca West s’era svegliata. Allora la cameriera col grembiule inamidato si presentava con un caffè forte e i croissant caldi. Vicino al burro e al miele c’erano cinque quotidiani intonsi. Rebecca detestava leggere un giornale già aperto da un altro. Guardando la sagoma sul letto, il figlio cercava di intuire l’umore della madre. Se era allegra poteva presentarle le lettere appena ricevute. «Questa fattura ha l’aria antipatica, puoi buttarla via». «Una lettera d’amore! La leggo subito».Non era sempre stata quella la vita di Rebecca, una grande scrittrice da tempo ingiustamente dimenticata. Era cresciuta in una famiglia di donne, impoverita dalla fuga del padre. Nei momenti di necessità la madre vendeva qualcuno dei bei mobili venuti dalla famiglia del marito. Ma non avrebbe mai rinunciato al magnifico pianoforte che suonava da professionista. Piuttosto di farlo si era reinventata come dattilografa. Intanto la futura scrittrice e le sue sorelle crescevano nutrendosi con i libri di casa. Una storia rievocata in un’opera magnifica, una trilogia di cui Fazi ristampa il primo volume, La Famiglia Aubrey. Mentre le sorelle studiavano, Rebecca, che ancora non si chiamava così, ma Cecily Isabel Fairfield (1892-1983), aveva deciso di fare l’attrice.Intanto, insieme alle sorelle, partecipava alle prime manifestazioni delle suffragette. «Io stessa non sono mai riuscita a capire con precisione che cosa significhi femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta».
Per non fare arrabbiare la mamma che le aveva proibito di scrivere su una rivista del movimento, aveva scelto come pseudonimo Rebecca West, il nome di una bellicosa eroina di un’opera di Ibsen Casa Rosmer. Avendo capito che il teatro non era per lei si era dedicata con successo al giornalismo dove il suo stile, la sua audacia e la sua indipendenza l’avevano presto fatta apprezzare. Rebecca non esitava a punzecchiare le glorie più consolidate, come lo scrittore H.G. Wells da lei definito «una vecchia zitella».
Quello che doveva essere un primo incontro tra quella ventenne e quell’uomo maturo, eco del padre scomparso, si era protratto fino all’ora di cena, quando era troppo tardi per lasciare tornare a casa Rebecca che venne ospitata. All’inizio lui la chiamava per nome e lei, sinteticamente, H.G., poi quando l’atmosfera si arroventò presero l’abitudine di chiamarsi Pantera e Giaguaro. Incuriosito dal singolare connubio, un giorno Somerset Maugham le chiese in cosa consistesse il fascino di Wells. «Ha un profumo di noce ed è agile come un bell’animale», fu la risposta precisa e insoddisfacente che ottenne.
Wells, assorbito dalla sua poligamia, cercava di tenere a bada quell’incantevole ragazza troppo appassionata per lui. Si era limitato a un bacio, ma quando la rivide, dopo un soggiorno in Svizzera con la sua amante, la scrittrice Elizabeth von Arnim, Rebecca non si era calmata, anzi lo aveva accusato di averla spinta ad amarlo per poi lasciarla cadere. Appena aveva cercato di calmarla, se ne era andata, poi gli aveva scritto che presto si sarebbe sparata in testa o avrebbe fatto «qualcosa di ancora più sconvolgente della morte. Non capisco perché tre mesi fa mi volevi e adesso non mi vuoi più una volta trovavi bello e coraggioso il mio desiderio di amarti. Penso sia ancora così. Il tuo comportamento da vecchia zitella ti fa pensare che una donna disperatamente innamorata senza speranza sia uno spettacolo indecente Darei tutta la mia vita per sentire di nuovo le tue braccia intorno a me. Come vorrei che mi avessi amata. Come vorrei piacerti».
In un primo tempo Wells, temendo che quell’imprevedibile ventenne sollevasse uno scandalo, si era ritratto poi aveva ceduto al fascino della sua «grande, morbida bocca» e dei suoi «occhi inquieti scuri ed espressivi». Era iniziata così una burrascosa relazione clandestina destinata a durare una decina d’anni generando un figlio. Appassionata e impetuosa West non temeva lo scandalo ma l’egoismo dell’amato. Il suo anticonformismo aveva colpito Virginia Woolf che l’aveva scherzosamente definita «un incrocio tra una donna di servizio e una zingara, ma più tenace di un terrier».
Nel 1918 scrisse un bellissimo romanzo, il primo di una donna sui militari devastati dall’esperienza bellica, Il ritorno del soldato (Neri Pozza). Negli anni 30 esplorò la Jugoslavia preparando ineguagliabili libri di viaggio (pubblicati in Italia da EDT) e, dopo Wells ebbe vari amori, da Charlie Chaplin al principe Antoine Bibesco, un seducente amico di Proust. Anche se l’aveva soprannominato «l’eroe del boudoir», era rimasta talmente sconvolta dal raffinato erotismo di quel Don Giovanni da dovere ricorrere a un’analista. 
Dopo la Seconda guerra mondiale – «Perché mai la vita moderna ha generato orrori al cui confronto le vecchie tragedie sembrano spettacoli per bambini?» – aveva seguito il processo di Norimberga, lasciandoci un memorabile reportage sui criminali di guerra e sull’impazienza del mondo di chiudere quella partita col passato per dedicarsi al futuro. Anche Rebecca intanto aveva cambiato vita. Un matrimonio con un banchiere e i successi dei suoi libri l’avevano liberata da ogni preoccupazione finanziaria. Abitava nei quartieri alti e raggiungeva in Rolls-Royce la sua imponente casa di campagna. Tuttavia restavano difficili i rapporti col figlio Anthony, che le rimproverava di averlo cresciuto distrattamente, mentre aveva trasformato il padre, ben più distante di lei, in un eroe.
Quando lui aveva scritto un romanzo raccontando in modo trasparente e aggressivo la loro storia, West si era scatenata impedendogli di pubblicarlo fino alla sua morte.
Agli ultimi, quando le avevano chiesto se voleva vederlo, aveva esitato un momento prima di rispondere: «Forse è meglio di no, visto che mi odia così tanto».