La Stampa, 3 luglio 2018
Radical Market
Delle troppe disuguaglianze del mondo di oggi i più danno la colpa al mercato globale. E se invece fosse possibile attenuarle con più mercato, più concorrenza? Lo sostiene con originalità un libro di cui si sta discutendo parecchio, Radical Markets del giurista Eric Posner e dell’economista Glen Weyl (Princeton University Press 2018).
Gli accresciuti divari di ricchezza nei Paesi avanzati indignano di più perché la crescita economica è lenta; anzi i cittadini in maggioranza temono che i loro figli saranno più poveri dei genitori. La risposta di Posner e Weill è che i redditi languono perché i mercati, in sé creatori di benessere, sono distorti dal potere della ricchezza e del denaro.
Il prezzo giusto
Spingendo il ragionamento all’estremo, i due arrivano a sostenere che la peggior forma di inefficienza è la proprietà privata: quasi mai un bene è nelle mani di chi sa farne l’uso più produttivo. Allora perché non obbligare a cederla se qualcuno offre il prezzo che il possessore ha stabilito come equo?
L’idea chiave è che il prezzo giusto si stabilirebbe grazie a un contrasto di interessi. Istituendo, al posto delle altre tasse, una patrimoniale con aliquota fissa, ciascuno sarebbe tenuto a dichiarare quanto vale ciò che possiede. Chi per ridurre l’imposta dichiarasse valori troppo bassi correrebbe il rischio di dover vendere a un prezzo poco conveniente.
Utopia, non c’è dubbio; nel dibattito molti elencano controindicazioni. Se l’insicurezza della gente nasce da trasformazioni economiche troppo rapide, come possiamo dirgli che da un momento all’altro potranno essere costretti a cambiare la casa in cui vivono da anni? Non si torna a chiedere di sovrapporre un freddo calcolo alle passioni umane?
La virtuale abolizione della proprietà privata ha suscitato interesse all’estrema sinistra, ad esempio sul quotidiano francese Libération. Il libro nasce in realtà da riflessioni interne al neoliberismo americano, dopo gli insegnamenti della grande crisi, per riscoprirne le origini libertarie; e arriva a rivalutare il ruolo degli Stati.
In quella direzione già si era mosso il padre di Eric Posner, Richard (La crisi della democrazia capitalista, Bocconi 2014), figura di spicco della «scuola di Chicago». Insegna a Chicago anche l’italiano Luigi Zingales, autore di Manifesto capitalista (Rizzoli 2013), dove si rivendica un uso del mercato negli interessi di tutti.
Né destra né sinistra
I due autori del libro non si considerano né di destra né di sinistra. Della destra liberista condividono il ruolo centrale del mercato, rifiutano il «fondamentalismo di mercato» che reputano irreale o pretestuoso. Con la sinistra hanno in comune la critica alle disuguaglianze, non le ricette per governarle.
Nel dibattito, alcuni tentano di riportare l’utopia con i piedi per terra. Se ci si limita a tassare sempre più i patrimoni invece del lavoro, il filosofo Michael Sandel è d’accordo. Il ministro delle Finanze irlandese Pascal Donohoe ricorda quanto sia stato arduo, in diversi Paesi, anche solo regolamentare la proprietà fondiaria a scopi urbanistici.
Immaginandosi le obiezioni del premio Nobel 2017 Richard Thaler, i due autori ne hanno discusso con lui. Thaler nota che ognuno si affeziona alle sue proprietà, e il prezzo a cui sarebbe disposto a cederle è più alto di quello a cui ne acquisterebbe di uguali. Per lui va bene così; Posner e Weyl lo vedono come un errore che si può imparare a correggere.Ma può servire questa utopia contro lo squilibrio più grave, la sbilanciata distribuzione delle ricchezze finanziarie? Qui l’analisi si sposta: in sintonia con altri, i due ritengono che le crescenti disuguaglianze negli Usa derivino da una mancanza di concorrenza che gonfia i profitti delle imprese.
Quale competizione può esserci tra le cinque maggiori banche americane, si domandano, se gli stessi quattro grandi fondi di investimento – Blackrock, Vanguard, State Street, Fidelity – si dividono il 18% del capitale della prima, il 16% della seconda, il 18% della terza, il 17% della quarta, il 20% della quinta?
Le regole
Occorrono regole. Furono gli Stati Uniti a inventare la legislazione antitrust oltre cent’anni fa, dicono Posner e Weyl, ma ora la trascurano. Nasce così l’idea di un «Good State» che, invece di interferire con il mercato come chiesto dalla sinistra o oggi ancor più dai populisti, lo regoli perché possa operare al suo meglio.
Per decidere le politiche da attuare, hanno escogitato un sistema che chiamano «voto quadratico». In breve, ogni cittadino astenendosi tre volte guadagnerebbe l’opzione a votare per due quando capiti una questione che lo appassioni molto. Servirebbe ad accrescere la fiducia nella democrazia delegata? Le reazioni dei politologi sono scettiche.Dalla Germania replicano: si riscopre il nostro ordoliberalismo, che un ruolo simile dello Stato lo ha sempre previsto. Ma proprio le utopie nuove stimolano a ragionare in modo creativo, ribatte il francese Jean Tirole, Nobel 2014 per i suoi studi su come costruire mercati equi (Economia del bene comune, Mondadori 2017).