La Stampa, 3 luglio 2018
È ispanico il populismo di sinistra
«Ti mettono nel petto una fascia tricolore, ti siedi sulla Sedia dell’Aquila e si parte! È come salire sulle montagne russe, vai in picchiata e fai una smorfia che diventa la tua maschera. La faccia che si fa quando stai all’ingiù è quella che ti resta per sempre». Lo scrittore Carlos Fuentes descriveva così, 15 anni fa, quello che ha significato il mandato di presidente della Repubblica del suo Paese da oltre un secolo a questa parte. Sembra certo che il capo dello Stato uscente, Enrique Peña Nieto, continuerà a provare questa paura anche dopo aver passato il testimone al suo successore, eletto domenica scorsa. È da vedere ora se Andrés Manuel Lopez Obrador riuscirà finalmente a far diventare il Messico un Paese prevedibile, e non perennemente sottomesso alle aritmie provocate dalle attrazioni del luna park.
La vittoria di Lopez Obrador si inserisce nella corrente, ormai quasi globale, della perdita di prestigio dei partiti politici tradizionali. La corruzione, l’autoreferenzialità e la lontananza dagli elettori, dalle loro speranze e i loro problemi, hanno propiziato l’ascesa dei populismi, che spesso sfociano in forme di autoritarismo apparentemente benevolo, ma con derive quasi dittatoriali. In ogni caso, le elezioni messicane hanno caratteristiche specifiche, che le rendono un fenomeno unico. Siamo davanti alla svolta politica più importante del Paese dalla fondazione del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), che ha segnato la vita del Messico, in un modo o nell’altro, per più di novant’anni. Il trionfatore, Amlo (dalle iniziali del suo nome), ha cominciato la sua vita politica nel Pri e più tardi nel Prd, una scissione di sinistra, e in molti vedono, quindi, la sua elezione come un’eredità non dilapidata dello spirito rivoluzionario che ha dato origine a quel sistema che oggi viene dato per morto. Ha avuto un passato da governatore, ha guidato il «Distretto federale» di Città del Messico tra il 2000 e il 2006, e sebbene la sua gestione sia stata controversa, anche i suoi detrattori gli riconoscono di esser stato un buon governatore. Insomma, Amlo è tutt’altro che un volto nuovo, ma un politico di lungo corso, che ha resistito alle sconfitte elettorali, grazie a una solida scuola nei partiti.
Nonostante la demagogia di molte dichiarazioni e di alcuni aspetti della sua personalità, Lopez Obrador non si riconosce nella categoria di populista. È invece un chiaro leader di sinistra e il suo radicalismo ha messo in allarme imprenditori e dirigenti. Deve il suo successo all’appoggio, insperato fino a qualche anno fa, delle classi medie, stanche della corruzione dei suoi governanti, della violenza dei narcos e delle enormi diseguaglianze. Il suo non è un discorso nuovo, quella che è cambiata è la speranza degli elettori che le promesse di un politico possano finalmente diventare realtà. Anche Peña Nieto è arrivato alla presidenza annunciando un piano di riforme che avevano prodotto un effetto simile. Ma lascerà l’incarico circondato da scandali di corruzione, in un Paese con un livello di violenza sconosciuto finora.
Il potente mondo degli imprenditori messicani ha portato avanti una campagna frenetica contro il presidente neo eletto, temendo che il suo programma potesse mettere in pericolo l’economia del Paese, una pressione che è stata allentata solo a ridosso delle elezioni. Il candidato si è molto prodigato nel mandare messaggi di moderazione, in contrasto con le minacce demagogiche del candidato della destra Roberto Anaya. Il fango gettato dai settori conservatori contro Amlo è arrivato al punto tale che in alcuni dibattiti privati e pubblici si è ipotizzato un attentato che mettesse fine alla sua vita. Gli studiosi di politica messicana devono tenere in conto che, durante gli ultimi novant’anni, in questo Paese il dibattito intellettuale non è stato un fattore decisivo per ottenere il potere.
Le elezioni di domenica costituiscono uno spartiacque nella storia. È improbabile che il Pri continui a essere il centro nevralgico del sistema e non si può escludere che scompaia del tutto, fagocitato dal nuovo scenario. La lotta contro il narcotraffico, che ha causato più di cento morti soltanto durante la campagna elettorale, non sarà semplice. I suoi tentacoli si sono impadroniti di posti chiave all’interno delle forze dell’ordine e del potere municipale. L’elaborazione di un piano fiscale che modernizzi le istituzioni economiche e rafforzi lo Stato troverà l’ostilità attiva degli imprenditori, abituati spesso ad arricchirsi grazie alle complicità di chi ostenta il potere. In ultima analisi: sei anni non sono un periodo sufficiente per ottenere una vittoria chiara nella lotta contro le diseguaglianze, ma un cambio di sistema politico può aprire una finestra di speranze.
Colpisce poi, che nel momento in cui l’America Latina vira a destra (Cile, Perù, Colombia, Argentina e Brasile) il Messico vada in direzione opposta. Gran parte della campagna di Lopez Obrador l’ha fatta in realtà Donald Trump, con le sue politiche d’odio verso i messicani e le sue bravate sul muro che hanno esacerbato il, già di per sé ingombrante, sentimento patriottico e nazionalista del Paese. Il Messico ha una frontiera di più di tremila chilometri con la prima potenza mondiale, più di cinque milioni di messicani, senza documenti, si trovano negli Stati Uniti illegalmente e 35 milioni sono i cittadini americani di origine azteca. Al di là della controversia sul muro, i rapporti di Trump con il Paese vicino hanno seguito una sceneggiatura firmata dal genero del presidente, Jared Kushner e il cancelliere messicano Luis Videgaray, amici di lunga data. Per questo il Dipartimento di Stato e i responsabili delle politiche di immigrazione americana hanno più motivi di preoccupazione rispetto a due giorni fa. Mancano ancora cinque mesi alla salita di Amlo sulle montagne russe, solo allora potremo vedere che faccia farà.