il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2018
Addio al Mucchio Selvaggio
Era l’autunno del 1977 quando in edicola spuntava una nuova rivista musicale. In copertina, a campeggiare su una foto di Neil Young, un nome scritto in caratteri western: Il Mucchio Selvaggio. Il riferimento era all’omonimo film di Sam Peckinpah ma non pochi giornalai, evidentemente alieni al fascino della cinefilia, agli inizi pare sistemassero per errore la rivista nel settore “porno”.
Una delle tante leggende che fanno parte della mitologia spicciola di una testata che da questo mese, dopo 41 anni di onorato servizio, in edicola non apparirà più. La chiusura del più longevo tra i mensili musicali italiani è stata annunciata la scorsa settimana con un comunicato su Facebook. Tra le ragioni dell’addio, oltre al momento difficile che vive un po’ tutto il settore, c’è anche una ingiunzione di pagamento della precedente direzione che quella attuale non può o non intende soddisfare. Sigillo definitivo a una lunga storia di ripicche e polemiche su cui è meglio sorvolare. D’altra parte la litigiosità e le scissioni hanno fin dall’inizio fatto parte della storia del giornale, dalla cui costola sono nate nel tempo altre riviste.
In morte del Mucchio, più che la sua fine poco gloriosa, è giusto celebrare una vicenda che a suo modo gloriosa lo è stata per tanti anni, almeno nel mare nostrum del giornalismo rock italiano. Qualcosa di più e di diverso di una semplice rivista musicale, Il Mucchio Selvaggio. Piuttosto un amico fidato, anche se spesso caciarone e anarcoide, che ha accompagnato nella gioventù (e oltre) migliaia di baby boomer e figli della generazione X ma anche qualche millennial (pochi, rispetto ai loro omologhi dei decenni precedenti, eppure ugualmente appassionati).
La parola chiave, in questo caso, è “appartenenza”. Il Mucchio, parlando di dischi, libri, film, fumetti e spesso anche di politica e costume, più che una comunità di lettori aveva saputo creare una vera e propria tribù. Che oggi è forse sparsa, disillusa, invecchiata e il cui stesso totem – quella cultura “alternativa” intorno alla quale hanno ballato almeno tre generazioni – è in disarmo o addirittura già crollato. Non per questo il senso di perdita, almeno simbolica, è meno forte. Il Mucchio è stato anche una palestra di scrittura per una grande quantità di firme, magari diventate poi giornalisti politici o di costume, scrittori, speaker radiofonici, autori televisivi, direttori di collane editoriali. Più di una semplice rivista, appunto. L’augurio è che l’attitudine – appassionata, a volte sgangherata ma sempre curiosa e vitale – che per tanta parte della sua storia ha contraddistinto il Mucchio possa essere di ispirazione per qualcosa che verrà. Un “spiritual guidance”, proprio come veniva definito John Belushi nel tamburino del giornale. Perché di grande musica da raccontare ce n’è e ce ne sarà sempre, così come di nazisti dell’Illinois da sbattere giù da un ponte.