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 2018  luglio 03 Martedì calendario

Federico Bahamontes: «Eravamo carogne, oggi corrono con i fiori in bocca»

En un lugar de la Mancha, a Val de Santo Domingo c’è una chiesa con una lapide alta mezzo metro dedicata al generale Primo de Rivera e ai morti per la libertà del piccolo pueblo, due case, una strada, molti campi, molte schiene curve nei secoli sulle zolle, molto vento. Il 9 luglio 1928, in una delle due case di Val de Santo Domingo nasceva Federico Martìn Bahamontes. Novant’anni dopo, il più anziano vincitore in vita del Tour de France ricorda ancora il giorno in cui un suo tifoso lo chiamò Aquila. L’Aquila di Toledo: «Una salita del Tour, un giorno di caldo che non si può raccontare». Siede su una poltrona di pelle nel suo ufficio, «ho molto da lavorare», alle sue spalle una grande foto, una grande aquila di marmo e la maglia gialla, con le iniziali di Henri Desgrange. Era il 1959 e fino ad allora il Tour l’avevano solo vinto francesi, italiani, belgi, svizzeri e lussemburghesi. Mai uno spagnolo. Disse Alfredo Martini: «I più grandi scalatori puri della storia del ciclismo sono stati Gaul e Bahamontes». A loro, Alfredo univa il nome di Marco Pantani.
Gaul e Pantani sono stati vinti dalla malamorte. Bahamontes, destinato sin dal cognome a “spianare le montagne”, ha ingaggiato con la vita, invece, un patto di ferro: «Vivo sereno, mi sveglio presto, vengo qui tra le mie biciclette». In un quadretto conserva una foto dei suoi genitori, in due generazioni sembrano esserci tutte le ére della terra. «Coltivavano verdura, zucchine soprattutto, e le rivendevano al mercato. Mio padre era comunista e lo è stato fino alla fine, antifranchista convinto, ma un giorno rischiò di prendersi una schioppettata da un compagno che gli chiedeva di regalargli una cassa di frutta. Regalare è un verbo che non esiste, quando hai sei figli da sfamare». La bicicletta era un mezzo per andare da casa al campo, una giornata di lavoro valeva un limone. «Alla prima corsa andai con un limone in tasca, ero un ragazzino e vinsi, mi sentivo Coppi». Anni dopo, Coppi e Geminiani sarebbero andati a casa sua, a Toledo, per una battuta di caccia alla lepre.
«Alla mia epoca correvano Coppi, Bobet, Anglade, Riviere, Massignan, Koblet, Kübler, Anquetil, Baldini, Gaul, Nencini, eravamo tutti amici ma sulle strade era una guerra. Una guerra tra amici». Com’era, il ciclismo? In un cassetto, Bahamontes ha un’altra fotografia, Conterno che lo strattona per la maglia e ne frena un attacco in montagna: «Questo era il nostro ciclismo. Uno sport terribilmente duro, violento, pieno di carognate, quello di oggi fa ridere, è una passeggiata col fiore in bocca in confronto. Una volta, sulla Romeyere, al Tour, un belga mi tira una pietra e mi rompe due raggi della bici. Bene, gli dico, adesso vai da solo. Mi siedo e aspetto il meccanico. Sul colle c’era un carretto di gelati. Ne approfitto e prendo un gelato alla vaniglia. Un minuto dopo era tutto sciolto per il caldo. Avevo un difetto, la discesa, non era la mia specialità, anche per questo cercavo di fare le salite a tutta. Per compensare un mio difetto, impossibile da correggere». La scalata al Puy de Dôme, che fu decisiva nel vittorioso Tour, resta una delle più grandi esibizioni di forza di uno scalatore nella storia del ciclismo. Ha vinto sei volte la classifica dei grimpeurs e ha scavalcato in testa 53 colli del Tour, un record assoluto. La giornata più terribile però fu al Giro: «Sul Bondone, nel 1956, sotto quella terribile nevicata, con una maglia leggera. Vinse Gaul, ma gli organizzatori non ci capirono nulla, molti corridori nemmeno arrivarono sul traguardo». Undici anni da professionista, una settantina di vittorie. «Quando venni selezionato per il primo Tour, nel 1954, il commissario tecnico dovette venire a casa a chiedere a mia madre il permesso. Lei prese un rosario e iniziò a pregare perché non mi facessi male, servivo intero. Dovevo diventare un campione per forza». Sfuggire alla fatica dei campi compiendone un’altra, più esaltante, più devastante. Su uno dei colli che si affacciano sul Tago, Toledo ha dedicato alla sua Aquila un monumento, uno scalatore che si muove en danseuse. «Le corse non mi interessano più, quel che è stato è stato. Il giorno della mia ultima corsa, misi piede a terra e lanciai via le scarpe. Non mi pagavano, e così urlai: “Trovatelo un altro Bahamontes, adesso”».