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 2018  luglio 03 Martedì calendario

Edoardo Pesce: «Nessuno mi riconosce in Dogman? Io canto e sogno Scorsese»

Edoardo Pesce ha una fisicità cinematografica in bilico tra la rabbia distruttiva di Toro Scatenato e la potenza gentile del toro Ferdinando, il beniamino del cartoon campione d’incassi. Matteo Garrone lo ha trasformato a colpi di protesi e palestra in Simone, l’amico aguzzino del toelettatore di cani Marcello. Rendendolo irriconoscibile. «Ho amici non del cinema che mi hanno detto “siamo andati a vedere il film, ma ’ndo stai?”. Vuol dire che ha funzionato», racconta l’attore, 38 anni, ora che ha ritrovato una taglia normale. È a Taormina per i Nastri d’argento, ha vinto come migliore interprete insieme a Marcello Fonte. Di premi in tutto Dogman ne ha presi otto. Dei suoi compagni di viaggio dice: «Matteo è un romantico, un Don Chisciotte del cinema. Non gli importa di nulla se non del film che fa. Gli ho regalato un libro su Hopper con la dedica “al miglior pennello del nostro cinema”». Con Marcello «ci siamo incontrati ai provini. Quando Matteo ci ha chiesto separatamente con chi ci saremmo visti meglio nel film ci siamo scelti. È andata a sensazione», racconta mentre giocherella con l’anello con il cerchio bianco su cui è scritto il numero 17.

Perché il 17?
«Il 2017 è stato un anno fortunato, Dogman è uscito il 17 maggio, e poi il 17 era il numero di mio nonno Marcello, era nato il 17 maggio del 1927. Nonno scommetteva ogni tanto, mi portava alle corse dei cani. Fumava il sigaro, mi chiedeva “ma che gli compri a nonno quando sei grande?”. Aveva tirato su quattro figli. Aveva quella romanità alla Fabrizi, Magnani, Ferri, non quella del coatto. Con quel finto cinismo che nasconde grande generosità».
A proposito di romanità. Sarà Franco Califano in una fiction su Mia Martini.
«Mi è sempre piaciuto Califano. A casa ascoltavamo più Gabriella Ferri, le canzoni popolari di Balzani e Petrolini. Ma il primo Califano lo considero un poeta. Lo conoscevo bene e non ho avuto bisogno di prepararmi, anche perché è un ruolo piccolo. Avevo chiesto al regista di suonare e cantare: c’è una scena in cui ho la chitarra, quando conosce Mia e quando poi all’alba le dice che ha scritto Minuetto per lei. Ma niente da fare».
Da “Dogman” a “Dogsitter”, il film che prepara con Fulvio Risuleo.
«Era un titolo provvisorio, ora lo cambieremo per evitare si pensi di sfruttare la scia di Dogman. Sono un metallaro-informatico onesto e buono che perde il lavoro: gli propongono delle truffe e dice di no. Ma poi qualcosa gli fa cambiare idea. No, non suono neanche qui. Me lo devono scrivere su misura il ruolo di un bluesman romano. E poi ho girato Non sono un assassino, un thriller legale con Riccardo Scamarcio, Alessio Boni e Claudia Gerini, sono un avvocato che ricorda il Satta Flores di C’eravamo tanto amati. È la storia di trent’anni di amicizia tra un ispettore, un avvocato e un giudice».
Coronamento di una lunga gavetta, da “Romanzo criminale” a “I Cesaroni”.
«A sette anni facevo le imitazioni per i parenti, Grillo, Totò, Verdone, Montesano. Avevo un repertorio di barzellette per far ridere mio padre. La scuola di teatro l’ho iniziata ai tempi del liceo. Venivo dalla periferia e il liceo al Mamiani era tosto. Per orgoglio mi sono messo a studiare, avevo otto in greco e latino. Non pensavo di fare l’attore, ma mi piaceva stare in scena. Ho iniziato a macinare provini, sono diventato un “gavettaro”».
Il provino peggiore?
«Quello a cui tenevo di più: Lo chiamavano Jeeg Robot, Mainetti mi voleva come protagonista e poi io sono proprio di Tor Bella Monaca. Al provino ero talmente teso che ho dato il peggio di me. Invece al quarto provino con Sollima per Romanzo criminale avevo un appuntamento burocratico urgente così mi sono presentato al volo “sì, sono pronto, vai”, ho fatto la scena e sono scappato. È andata bene».
Che ricordo ha di quel periodo?
«I miei amici nell’ambiente sono gli attori di Romanzo criminale, con Montanari, Marchioni e Caputo, con cui suono nell’Orchestraccia. Abbiamo rischiato di finire sotto sorveglianza della Digos perché ci telefonavamo parlando come i personaggi “domani c’è da ammazzare quello, poi arriva la partita di droga...”».
E dei “Cesaroni”?
«Un esempio di tv nazionalpopolare fatta bene. Il mio personaggio era un avvocato sposato con altro uomo. Su Gay.it mi hanno nominato icona gay perché non ho usato i soliti stereotipi. Già a Roma c’è omofobia, ho pensato al ragazzino che vive in un paesino in Abruzzo... In tanti mi hanno scritto».
Lei è mai stato vittima di bulli?
«Al Mamiani no. Ma ritornato nella mia periferia, mi piaceva stare con i grandi, ho subìto atteggiamenti di bullismo psicologico. Devono sporcare il tuo candore, perché magari studi, suoni, o hai la ragazza: “Ma dove credi di andare? Devi essere come noi”. A quarant’anni oggi non hanno combinato molto. L’esperienza mi è servita per fare Simoncino: ma dentro la sua scorza mostruosa ci ho messo la tenerezza».
Ha fatto pugilato per anni.
«Mi piace come forma espressiva. I miei campioni preferiti? Canelo Alvarez, gli storici Alì e LaMotta. Al cinema i miei film sono Lassù qualcuno mi ama e Toro scatenato, ho anche scritto la canzone De Niro blues… Al Cinema ritrovato di Bologna sono stato a cena con Scorsese, mi sono commosso. Mi ricordo la prima volta che ho visto Toro scatenato, piccolissimo, al mare: il caldo, De Niro, mio nonno e il suo sigaro...».