Dell’acufene non si sa abbastanza, non se ne parla abbastanza, in molti sostengono di poterlo debellare e, secondo la mia esperienza, non ne sono affatto capaci. “Chi troverà il rimedio vincerà il Nobel” è la frase più ricorrente nei forum, l’altra è: “Non c’è rimedio, te lo devi tenere”. Per diversi mesi mi sono classicamente chiesto perché proprio a me. Me lo sono chiesto perché ho concentrato tutta l’esistenza sulla musica come se fossi un predestinato, come se nulla potesse accadermi, almeno fino a questo colpo di scena. Nell’arco della mia vita centinaia di scelte diverse mi avrebbero portato in centinaia di direzioni e oggi avrei potuto essere l’esatto opposto di ciò che presumo io sia. E invece, anche stavolta sono tornato a scrivere».
E a fare concerti, come quelli del tour dello scorso inverno, all’indomani della pubblicazione dell’ultimo album, “ Prisoner 709”. E come quelli di questa estate, dalla fine di giugno ai primi di settembre: un lunghissimo giro di concerti in tutta Italia, completamente diversi.
«Suonare dal vivo è un’esperienza particolare, perché mi permette di mettere insieme elementi musicali e teatrali, quindi non farlo sarebbe un peccato. Allora ho cambiato tutto rispetto all’ultimo tour perché mi annoio a fare sempre le stesse cose, a riproporre sempre lo stesso spettacolo. Alle volte mi diverto anche a cambiare gli arrangiamenti delle canzoni, ma non troppo, perché mi piace restare fedele agli originali».
Non le piace essere sempre lo stesso nemmeno nei dischi.
«Mi pongo sempre domande, così come ho fatto realizzando Prisoner 709, il mio ultimo album. Sono un artista libero o sono prigioniero di questo ruolo? Sono felice o solo soddisfatto? Fare dischi era nel mio destino o è stato solo un grosso equivoco? Sono tante le domande esistenziali che mi sono posto mentre scrivevo questo disco, mentre cercavo di superare lo shock dell’acufene».
Prigioniero di cosa, dunque?
«Credo che il problema sia che tutti siamo prigionieri di qualcosa, soprattutto dei ruoli che ci hanno dato o che ci diamo. Io sono prigioniero dell’acufene, ma anche del mio mestiere. Durante le mie letture mi sono imbattuto in quello che viene chiamato “Esperimento della prigione di Stanford” a cura dello psicologo Philip Zimbardo. L’esperimento consisteva nel far recitare il ruolo di guardie e di prigionieri ad alcuni studenti universitari per due settimane. Fu interrotto dopo appena sei giorni perché nessuno riusciva più a sganciarsi dal ruolo assegnato. Le guardie divennero estremamente violente e i detenuti, annichiliti, finirono con l’accettare passivamente qualsiasi vessazione. Il prigioniero 819 tentò con uno sciopero della fame di sabotare l’esperimento e chiese di vedere un medico abbandonandosi a una crisi isterica. È pensando a quel prigioniero che è nato il titolo Prisoner 709 ».
È un disco molto più personale che politico.
«Sono passato dall’analisi all’autoanalisi».
Lei è stato uno di quelli che ha cambiato il linguaggio del rap italiano. Altri, più giovani, lo stanno facendo adesso. Cosa ne pensa?
«Il rap si adatta alle epoche e alle generazioni. Io non sono, per motivi anagrafici, in sintonia con quello che fanno i più giovani, ma molti di loro fanno cose interessanti».
Nell’album c’è un pezzo che mette insieme psicoanalisi e rap, “Forever Jung”.
«Azzardo l’ipotesi che il rap sia, nella possibilità di raccontare se stessi in un flusso incontrollato, una sorta di evoluzione delle scoperte di Freud e Jung. In questa traccia il rap torna a vestire i panni dello psicologo come nel 1986, quando irruppe nella mia vita tramite i Run DMC».